Liliana Poli (Firenze, 1º gennaio 1928 – Firenze, 14 luglio 2015)
È l’urlatice della musica seria. Viste dalla sua posizione d’avanguardia, le varie Manon, Mimì e Butterfly pucciniane sembrano personaggi antidiluviani. E più il pubblico proteste per i suoi inauditi melismi è più lei, paonazza in viso, dà sotto a certe riserve di fiato da terrorizzare la schiera dei tradizionalisti che la prendono per pazza e chi le ha dedicato quelle note.
“Quando vedo una platea ostile, prevenuta e, ignorante, conservatrice, incapace di stare in silenzio mentre interpreto un’opera nuova”, dice Liliana Poli, “allora non ci vedo più, m’arrabbio e urlo come una pantera “. Ciò l’ha portata ad avere il primato della cantante più fischiata e ingiuriata, vantando una raccolta di epiteti scurrili, ricevuti, purtroppo quasi tutti in Italia,”poiché all’estero “, le risulta, “il pubblico è educato, disapprova moderatamente e se non gli va un’opera la fischia al termine dell’esecuzione “. Non sono offese per le sue doti canore, eccezionali in verità, con una gamma di suoni che comprende senza sforzo la bellezza di tre ottavei, quanto per l’inconsueto repertorio. Eppure il suo esordio al Maggio Musicale Fiorentino, avvenne conforme alle regole più ovvie del teatro lirico: una Micaela nella Carmen di Bizet. Un debutto come quello di tante altre dopo un duro tirocinio a Firenze, sua città natale; un successo caldeggiato da sua madre, corista al Comunale.
Liliana Poli ricorda poi un aspro giudizio di Mirella Freni sulle opere moderne, “scritte per macchine e non per voci umane: se provi a cantarle anche una volta sola, la voce ti si strappa, ti va a brandelli e, come cantante, sei finita “. “Niente di più falso”, ribatte la Poli,” talvolta mi partono il cervello i nervi ma non la voce, è questione di tecnica di virgola di controllo, di conoscenza delle proprie qualità e dei propri limiti. Ci vuole tempo per mettere in gola quelle parti, sacrificio, studio, umiltà è una volontà non indifferente. ho cercato è trovato da sola questa strada. Nessuno me l’aveva indicata “. Mette sotto accusa i Conservatori pieni di incomprensibili inconcepibili arretratezze. Afferma che ad un allievo di canto si arriva perfino a proibire di andare più in là di Pizzetti. Racconto di una ragazza di Trieste, che le si rivolta per avere consigli e spiegazioni tecniche sul modo di affrontare, la musica di Anton Webern, poiché i maestri del Conservatorio si rifiutano di prenderne in considerazione le opere.
“Non è possibile”, precisa, “pretendere di avanzare completamente da autodidatta in questo campo, che richiede una formazione più completa di quella necessaria ad intonare una Cavatina”. Giudica male i Conservatori, ma è proprio in quelle di Firenze che lei ha partecipato ai primissimi fermenti delle nuova musica italiana. Li c’era il direttore Antonio Verretti ad incoraggiarla è ad appoggiarla. In quelle aule si incontrava la futura scuola di musica elettronica di Pietro Grossi, si incontravano allievi come Sylvano Bussotti, Bruno Bartolazzi e Carlo Prosperi. “Allora non studiavo canto ma pianoforte”. ricorda la Poli, “ed ebbi la fortuna di fare amicizia con quei ragazzi. Ci si vedeva, si discuteva, si contestava. Il resto, lo ripeto, l’ho fatto tutto da sola. Loro hanno, per così dire, acceso la scintilla e io mi sono poi buttata a capofitto nell’arte contemporanea. Abbandonai pure il liceo e decisi di studiare canto privatamente, anche se quella lezione mi avrebbero preparata sì e no alla Sonnambula. Furono allora gli stessi miei compagni di scuola e a poco a poco altri maesti che mi apprezzavano a scrivere partitura ap positivamente studiate per la mia voce.
Oggi il suo repertorio ufficiale (perché la Poli sa il fatto suo anche Mozart, in Schumann e in Schubert) gravità sui nomi di autori, dei quali che più “antichi” sono Berg, Dallapiccola, Hindemith, Petrassi, Schoenberg, Verretti, Vogel e Webern. Ogni mattina, però, quando deve rimettere in moto le corde vocali, la Poli li tradisce in blocco con Bach. Si allena infatti con i virtuosismi della Cantata 51 “Jauchzet Gott in allen Landen”. Agli inizi, quando abbandonato il repertorio tradizionale, debuttò nell’Avanguardia con il “Sentimento del sogno” di Bartolazzi e prosegui con i lavori di Nono e Bussotti, sua madre si preoccupava e commentava: “Codesta roba la farei cantare chi l’ha scritta”. Le ansie di quella brava mamma sono comprensibile: alla figlia capita di dover mettere in gola, troppe volte, urla, gemiti, sussurri, singhiozzi, singulti e via di questo passo. Anche in questo “caos” il soprano fa le sue scelte: “Canto senza partitismi”,confessa, “e non capisco i rimproveri di taluni compositori per aver affiancato al nome loro quello di altri,” antipatici “; tuttavia eseguo un lavoro solo se vi trovo idee musicali, altrimenti non perdo un minuto di tempo “. “Qualcuno”, si rammarica Liliana Poli, “mi ascolta in questa musica che risulta strana e pensa che io non abbia bisogno di conoscere la musica; che butti fuori i suoni a caso, e non si rende conto che sono invece il frutto di mesi e mesi di studio. Solo raramente capita che i compositori più spericolati, anziché di note, riempirò la mia parte di disegnini o da altro. Tocca a me allora tirar fuori la musica secondo l’estro e la fantasia del momento. Succede pure che il compositore mi dia soltanto l’idea di embrioni che io devo poi sviluppare “. Anticonformista dunque per forza di cose, non lo è tuttavia più del marito, il compositore Arrigo Benvenuti, allievo di Dallapiccola. Lui che le ha donato per le nozze un Fiore d’arancio per canto e pianoforte, la incoraggia in quelle esecuzioni che hanno per testo messaggi extra musicali e polemici. Lei dichiara di non condividerle sempre e di trovarsi persino a disagio quando le cantama li interpreta ugualmente perché li ritiene interessanti artisticamente.(Estratto da “Liliana Poli: una voce per il repertorio d’avanguardia” di Luigi Fait, Firenze, 1968)