Verona, Teatro Filarmonico: “The Messiah”

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Sinfonica 2021
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Giulio Prandi
Soprano Mary Lys
Contralto Sara Mingardo
Tenore Steve Davislim
Basso Christian Senn
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Georg Friedrich Haendel: “The Messiah”, Oratorio in tre parti per soli, coro e orchestra
Verona, 17 dicembre 2021
Nel novero delle celebrazioni musicali del periodo natalizio non può certo mancare il più famoso degli oratori haendeliani, quel “Messiah” che più di altri dette fama e gloria al compositore sassone naturalizzato inglese. Titolo ampliamente dato a Verona, in alcune delle sue basiliche monumentali come anche al Filarmonico, con esecuzioni più o meno attente alla prassi filologica: un appuntamento tradizionale era quello con Claudio Scimone e i Solisti Veneti accompagnati dai favolosi The Ambrosian Singers ma nella città scaligera il capolavoro è stato proposto anche da Gardiner, Koopman, Bressan fino ad una memorabile esecuzione, al Filarmonico nel 2005, di Harry Christophers con i suo The Sixteen. L’attuale edizione nel massimo teatro cittadino si presentava abbondantemente tagliata, soprattutto nella seconda e nella terza parte con inspiegabili mutilazioni in prevalenza nei cori; non si capisce da una parte l’ambizione di scalare una delle grandi vette della storia musicale e dall’altra la scelta di risparmiare sui tempi. In
ogni caso si tratta di un titolo amatissimo dal pubblico di ogni età e questo lo si è potuto evincere da un’affluenza più massiccia rispetto agli spettacoli precedenti in cartellone.
La Fondazione Arena metteva in campo i suoi complessi artistici per una sfida di tutto rispetto: solitamente, infatti, a fronte di un’orchestra italiana si tende ad optare per un coro inglese, assai più avvezzo al repertorio concertante tardobarocco di quanto non lo sia una compagine abituata alle forti tinte melodrammatiche. E proprio dal coro, al quale Haendel affida un ruolo quasi da coprotagonista, è doveroso partire nelle nostre considerazioni. In primo luogo vi è il recentissimo avvicendamento del maestro, il veneziano Ulisse Trabacchin che si è approcciato alla partitura monumentale cercando di togliere quella patina di lirismo, quella connotazione votata al melodramma ottocentesco perseguendo nel contempo suoni e colori nuovi; la scrittura corale haendeliana, chiara e magniloquente, di una certa spavalderia musicale è però ben altra cosa. Inspiegabili ad esempio, certi pianissimi che non passavano l’orchestra  ma ancora una volta dobbiamo evidenziare quanto la dislocazione di quest’ultima, scoperta sul piano platea, vada a danno delle voci. Quanto agli arcinoti passaggi di agilità, frutto della dotta arte contrappuntistica di Haendel e che richiamano il linguaggio strumentale, sono stati risolti talvolta sottotempo, prendendone le misure, con evidenti  incertezze ma pur sempre con solido mestiere di fondo. Il quartetto vocale annoverava quattro interpreti di indubbio interesse, tra i quali spiccava per generosità di suono il basso Christian Senn, già ascoltato a Verona in altre occasioni: se la sua aria di esordio, The people that walked in darkness è apparsa un po’ opaca, si è riscattato nella ben più celebre The trumpet shall sound trovando una buona intesa con la prima tromba della compagine areniana. Da parte sua, il tenore australiano Steve Davislim ha aperto l’oratorio con un buon recitativo e la successiva Ev’ry valley shall be exalted, staccata peraltro con un tempo sostenuto, ha avuto esiti felici nelle agilità a quartine ma la sua vocalità risultava talvolta un po’ esuberante per un Oratorio, anche nell’aria della seconda parte, Thou shalt break them with a rod of iron. Sara Mingardo è un contralto ben noto agli amanti di Monteverdi e del melodramma seicentesco; si cimenta spesso con Bach e gli autori più tardi ma la sua voce non garantisce quella profondità e proiezione di suono auspicabile, tanto che in una delle autentiche perle del Messiah, O thou that tellest good tidings to Zion ha faticato non poco per superare il muro sonoro degli strumenti. Il soprano Marie Lys ha modulato il suo materiale gestendone gli equilibri tra il controllo dell’emissione, la morbidezza del fraseggio e dell’emissione e una certa cura nell’articolazione e nel canto d’agilità: doti evidenti in Rejoice greatly, o daughter of Zion e con bell’uso del legato nella meravigliosa I know that my Redeemer liveth. La lettura
musicale era affidata alla direzione di Giulio Prandi, musicista dal multiforme ingegno (è pure matematico) ma l’impressione è stata quella di un approccio alla partitura più cervellotico che espressivo; in sostanza una grande opera di retorica esplicata da una gestualità spesso portata ad un’inutile esasperazione. L’orchestra ha suonato bene, con bel suono, ma risultando talvolta pesante e sproporzionata negli equilibri con le voci; ad ampia assoluzione delle parti vocali valga il principio che un’oratorio come il Messiah richiede la compattezza del coro, non distanziato (e senza mascherine) e subito dietro l’orchestra, mentre le voci soliste devono stare davanti, di fianco al direttore. Mala tempora currunt, la pandemia condiziona anche la musica e di questi tempi si fa di necessità virtù. Pubblico abbastanza numeroso ma siamo ancora lontani dagli esauriti di altri tempi. Foto Ennevi per Fondazione Arena