“IL MITO DI VENEZIA – DA HAYEZ ALLA BIENNALE”
Novara, Castello Visconteo. 30 ottobre 2021/13 marzo 2022
A cura di Fernando Mazzocca – Emilia Chiodini
Catalogo METS Percorsi D’Arte
Venezia nella seconda metà del XIX secolo, la Serenissima abbattuta da Napoleone e finita nell’alveo del mondo asburgico con la restaurazione, l’antica capitale chiamata a ricavarsi uno spazio dopo essere stata rilegata in una posizione sostanzialmente marginale che il passaggio al Regno d’Italia non muterà in modo radicale e poi la Venezia della belle époque luogo di ritrovo di artisti e intellettuali, scenario mitizzato di se stessa, ridisegnato dalle fantasie dei simbolisti e dei primi decadenti tra gli ultimi echi di Wagner e la presenza catalizzante di D’Annunzio in Laguna.
Questi i temi ella bella mostra “Il mito di Venezia – da Hayez alla Biennale” allestita presso il castello visconteo di Novara fino al 13 marzo 2022. Il percorso – breve ma di non poco interesse anche per la netta prevalenza di dipinti provenienti da collezioni privare o realtà provinciali quindi di non così facile accesso – racconta l’evoluzione della pittura a Venezia dagli anni 50 dell’Ottocento alla vigilia della prima guerra mondiale. Molti dei temi della mostra si affiancano alle coeve esperienze letterarie e musicali e quindi il piccolo viaggio risulta assai stimolante anche per il pubblico degli animanti dell’opera con la quale non mancano le suggestioni.
La mostra si apre con la monumentale tela di Francesco Hayez “Prete Orlando da Parma inviato di Arrigo IV di Germania e difeso da Gregorio VII contro il giusto sdegno del sinodo romano” del 1857 esempio tipico di una pittura di storia che molto si apparente alle analoghe esperienze del melodramma e se il soggetto non trova diretti riscontri la tinta espressiva e la tensione risorgimentale si possono a ben ragione definir verdiane. Questo carattere “melodrammatico” dell’accademismo italiano della stagione risorgimentale domina le prime sale dove al fianco di Hayez (rappresentato tra l’altro dal ritratto della ballerina Carlotta Chabert come Venere che nel 1830 suscitò uno scandalo di non poco clamore) si affiancano nomi meno noti in cui purtroppo un buon mestiere è spesso al servizio di un gusto espressivo fin troppo plateale come nel “Tancredi visita la salma di Clorinda” di Grigoletti del 1843. Nella più tarda “Scena in laguna con figure” di Antonio Zona (1865) dove in una Laguna da cartolina – o da fondale operistico – si celebra la più esplicita retorica patriottica: una piccola barca scivola sulla laguna portando un gruppo di personaggi di maniera – i cui abiti riprendono i colori del tricolore italiano – con al centro una ragazza devotamente intenta a pregare un ritratto di Vittorio Emanuele II, ci sarebbe da sorridere se non fosse un segno del tempo.
La seconda sezione dedicata al paesaggio tocca un tema essenziale: la necessità di reinventare un genere che aveva avuto enorme fortuna nel secolo precedente e che ora doveva trovare inevitabilmente nuove strade. Il problema di integrare la tradizione del vedutismo veneziano con la nuova sensibilità del paesaggio romantico si nota nelle opere di Federico Moja, Ippolito Caffi, Carlo Ferrari dove la buona esecuzione tradisce comunque una difficoltà di fondo nell’aggiornamento del genere.
Il vero cambio di passo si vede solo con le opere di Guglielmo Ciardi cui è dedicata un’intera sala. Il percorso si snoda da soluzioni tradizionali ancora legate al bozzetto cittadino a una nuova concezione della luce in cui importante ruolo gioca la conoscenza delle esperienze centro italiche dei gruppi macchiaioli. Evoluzione che vede un progressivo abbandono delle vedute urbane a favore degli spazi aperti della Laguna e delle campagne venete retrostanti, paesaggi di acqua e di cielo dove la luce domina ogni cosa, confonde i profili, inganna i sensi come nel “Porto d’Anzio” del 1888 e nel “Mulino sul Sele” del 1878. I risultati più maturi come “Sole d’autunno” (1881) sfiorano l’impressionismo.
Le sezioni successive ci portano al soggetto di genere nelle sue varie declinazioni. Sono i decenni successivi all’unificazione nazionale, al fallimento degli ideali risorgimentali e del ritirarsi degli artisti verso la sfera privata. Sono gli anni in cui si affermano le esperienze scapigliate e poi veriste che declinano nel carattere locale le suggestioni del naturalismo francese facendo proprio – soprattutto – i caratteri più epidermici e sentimentali mentre resta sostanzialmente estranea – tolte rare eccezioni soprattutto letterarie – la capacità di una più profonda e impietosa analisi politico-sociale.
Il mondo veneziano resta in questa dimensione più epidermica dove il bozzetto, la scena di genere, il gioco galante continuano a prevalere lasciando perdersi nell’ombra i drammi della stagione post-unitaria. Sono queste cifre stilistiche che accomunano tutte le sottosezioni dedicate a questo momento – vita famigliare, idilli sentimentali, pietà popolare – dove a mancare è sempre una maggior profondità e acutezza di sguardi. Persino le scene potenzialmente più drammatiche come “Fogo al camin” di Angelo dell’Oca Bianca (1882) non riescono a liberarsi totalmente di un retrogusto bozzettistico.
L’ispirazione è forse carente ma certo sempre valida resta la tecnica pittorica così che gli esiti migliori vanno ricercati in quei momenti dove la prima non è così prioritaria ed entrano in gioco altri fattori come l’ironia e lo spontaneità. Valga ad esempio “La fa la modela” di Ettore Tito (1884) con la modella del pittore che passa trafelata per una calle tra i commenti malevoli dei popolani. Un taglio simile si nota nelle scene galanti spesso calate in ambienti popolari che offrono occasioni per notevoli esempi di nature morte come in “Idillio” di Luigi Nono (1884) o “Corteggiamento al mercato” di Alessandro Milei (1887) dove una bella borghese riccamente abbigliata è corteggiata dall’ortolano con l’offerta di un cavolfiore.
Emerge tra i dipinti di questa sezione “Refugium peccatorum” ancora di Nono (1883) dove un evento aneddotico – la modella esausta da una lunga sezione di posa si lasciò cadere a terra permettendo al pittore di trarre uno schizzo di autentica umanità – è calato in una composizione decisamente ragguardevole sul piano cromatico e luministico.
Il passaggio tra i due secoli cambia radicalmente la situazione. La nascita delle Biennali – la prima nel 1895 – e l’arrivo a Venezia di una nuova generazione di artisti e intellettuali – Fortuny, Conti, D’Annunzio – diventa il cuore delle nuove istanze simboliste e decadenti. Protagonista in mostra è Mario de Maria con “La danza dei pavoni” del 1890 elaborazione come dipinto di un’incisione del 1886 per “Isotta Guttadauro” di D’Annunzio dove architetture di sapore veneziano si stagliano in un mondo di grigi e neri tra il sogno e l’incubo.L’ultima stanza riunisce le tendenze del periodo. Dall’evoluzione del gusto precedente adattato alla nuova sensibilità con atmosfere quasi proustiane come nei più tardi lavori di Ettore Tito a “Visione antica” di Cesare Laurenti che rilegge il tema classico delle grazie con gusto liberty e dannunziano fino alla “Pescatrice di capelonghe” di Pietro Fragiacomo dove un soggetto sostanzialmente di genere si carica di suggestioni misteriose e arcane che tradiscono una conoscenza di Krøyer e più in generale della pittura nordica. Chiude una mostra un ritratto femminile di Lino Salvatico del 1911 tra Boldrini e Sargent. Ultimi fasti di un mondo al crepuscolo e mentre Marinetti tuona contro Venezia passatista si preparano i cannoni e le trincee in cui affonderà la civiltà europea negli anni seguenti.