“La vedova allegra” chiude la stagione lirica di Sassari

Sassari, Teatro Comunale – Stagione lirica 2021
“LA VEDOVA ALLEGRA”
Operetta in tre atti di Victor Léon e Leo Stein.
Musica di Franz Lehár
Barone Mirko Zeta CLEMENTE ANTONIO DALIOTTI
Valencienne FRANCESCA PUSCEDDU
Il Conte Danilo Danilowitsch VINCENZO NIZZARDO
Hanna Glawary MADINA KARBELI
Camille de Rossillon MARCO MIGLIETTA
Raoul de Saint-Brioche MARCO PUGGIONI
Il Visconte Cascada WILLIAM HERNANDEZ
Bogdanowitsch PAOLO MASALA
Sylviane MARGHERITA MASSIDDA
Kromow MATTEO LOI
Olga LARA ROTILI
Pritschitsch FRANCESCO SCALAS
Praskowia TERESA GARGANO
Njegus ANDREA BINETTI
Orchestra e Coro dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Corpo di ballo Romae Capital Ballet
Direttore Sergio Alapont
Maestro del coro Antonio Costa
Regia Andrea Merli, Renato Bonajuto
Scenografia e costumi Artemio Cabassi
Coreografia Giuliano De Luca
Luci Tony Grandi
Allestimento Arte Scenica s.a.s. – Reggio Emilia
Sassari, 3 dicembre 2021
È risaputo l’aneddoto per cui i coniugi Alma e Gustav Mahler, pur disprezzando l’operetta, si divertirono come matti a una delle repliche di La Vedova allegra, arrivando persino a sbirciare di nascosto un passaggio che non ricordavano bene in un negozio di spartiti: sarebbe stato sconveniente per il più celebre compositore dell’epoca acquistare la copia di una roba simile… Il lavoro più celebre di Franz Lehár è questo: un libretto improbabile su ballabili e canzonette che però, poco più di un secolo fa, diventò un caso grazie al suo rapidissimo successo europeo. Ovviamente pesare il valore di un’opera sul suo successo è un errore: La Vedova allegra non si avvicinerà mai, neanche lontanamente, a capolavori musicali che al loro esordio furono magari ignorati dal pubblico e ritirati dopo un paio di repliche; ma se il consenso popolare non è sempre un marchio di qualità, è comunque snobistico ignorarlo, con le ragioni e il contesto storico e sociale che lo determinano. Il più lungo periodo di pace della storia europea prima della Grande Guerra, l’esplosione dopo l’esposizione universale de La Ville Lumière, la grande Mitteleuropa dell’impero austroungarico al culmine del suo decadente splendore, la voglia di una nascente borghesia arricchita di divertirsi comunque, anche se sull’orlo di un vulcano, sono tra le ragioni di un successo che ha le sue radici e la ragion d’essere nell’epoca che lo ha determinato. La facile presa dei brani più celebri e l’alternanza di stralunata spensieratezza e patetici languori funzionano ancora oggi, in piena era Covid? Forse proprio per questo sembrerebbe di si, vedendo il notevole successo in chiusura della stagione lirica di Sassari: finalmente, nonostante il permanere dell’emergenza, ecco un buon numero di spettatori, desiderosi di tornare alla normalità e contenti di dimenticare per qualche ora i problemi attuali, anche se con uno spettacolo abbondantemente fuori tempo massimo. Il contesto attuale è infatti troppo diverso per poter apprezzare o solo comprendere tutti i riferimenti e le allusioni dei livelli testuali (libretto e musica) strettamente legati all’attualità dell’epoca; ciò anche a causa della regia di Andrea Merli e Renato Bonajuto, che si limita a un gradevole intervento didascalico e decorativo, rispettoso dell’ambientazione originale, ma senza fare vere scelte in una messa in scena che, per uscire dalla routine, avrebbe avuto bisogno di una direzione ben più decisa. Dopo l’ennesima replica del titolo si può ancora far finta, nel contesto artistico di una stagione lirica, di credere a languori e cocotte “fin de siècle”?  Forse solo l’amorevole sarcasmo del grande Paolo Poli sarebbe stato capace ora di fare di quelle piume e quei sospiri un prodotto non banale; oppure qualcuno col coraggio di mettere a nudo veramente l’anima decadente e feroce di quella società, per certi versi così simile alla nostra. I costumi (belli) e le scene (meno belle) di Artemio Cabassi, con la collaborazione alle luci di Tony Grandi, riempiono invece il palcoscenico di colori smaglianti, fondamentalmente per creare dei tableau ridondanti, ma il taglio rimane generico e non aiutano le dinamiche espressive e dialettiche dei personaggi, poco uniformate da scelte coerenti per uno spettacolo in cui il parlato ha una parte molto importante. Si va infatti dalla rigida recitazione enfatica della protagonista a quella naturalistico-televisiva di altri personaggi, in un fai da te appesantito dalle solite sottolineature sui mariti cornuti o le battute attualizzate da avanspettacolo: roba già vecchia ai tempi del giovane Totò. La serata, nonostante qualche lungaggine, nel complesso comunque ha funzionato, grazie soprattutto alla verve impressa alla musica dalla direzione di Sergio Alapont, vera nota positiva della produzione. Il direttore spagnolo ha confermato nell’occasione le sue doti di controllo della flessibilità agogica, d’espressione e di gusto nel fraseggio, conducendo con leggerezza e vivacità un insieme che non scade mai in eccessi o nel cattivo gusto, sempre in agguato in un simile repertorio. In ciò è stato ben aiutato dalla buona disposizione di coro e orchestra dell’Ente concerti de Carolis, adatti al repertorio e disponibili a divertirsi e divertire con un carattere adeguato e un risultato musicale sicuramente apprezzabile. Anche il cast, composto soprattutto più da cantanti-attori che attori-cantanti, nel complesso ha dato una discreta prestazione pur senza entusiasmare, soprattutto nei protagonisti Madina Karbeli e Vincenzo Nizzardo: oltre alla necessità di maggior carisma scenico (sfuggente categoria quanto più necessaria in mancanza di reale sostanza della musica) si avvertiva qualche problema vocale e poca confidenza con un repertorio che richiede delle specifiche particolari. Non a caso il Njegus di Andrea Binetti, sicuramente più attore che cantante, è stato il personaggio più riuscito e a proprio agio, grazie all’esperienza, la presenza scenica e alla capacità di tradurre espressivamente il testo. Stesse problematiche anche per il resto del numeroso cast, comunque a un discreto livello, dove sono da segnalare la buona prova vocale di Francesca Pusceddu, il canto un po’ spigoloso di Marco Miglietta e la valida recitazione di Clemente Antonio Daliotti; è stata lodevolmente valorizzata anche l’ampia partecipazione di cantanti regionali, quasi tutti giovani con un bel materiale vocale, buone doti sceniche e ampie prospettive di miglioramento. Accettabile, ma nulla più, l’apporto del Corpo di ballo Romae Capital Ballet. L’ultimo commento, in chiusura della stagione lirica locale e nella situazione attuale, è da riservare a chi ha organizzato, partecipato, lavorato comunque tra le note difficoltà della pandemia ancora in corso: l’applauso, al di là di un risultato artistico ora relativamente importante, va sicuramente a tutti e alla volontà di mantenere un presidio di comunità e civiltà che un teatro aperto e funzionante comunque rappresenta. Alla prossima.