Ruggero Leoncavallo: “Si può? Signore! Signori” (“Pagliacci”); Umberto Giordano: “Nemico della patria” (“Andrea Chenier”); Giuseppe Verdi: “Di Provenza il mare, il suol” (“La traviata”), “Perfidi! All’anglo contro me v’unite” (“Macbeth”), “Ah, prigionier io sono…Dio di Giuda” (“Nabucco”), “Tutto e deserto…il balen del suo sorriso” (“Il trovatore”), “Alzati, là tuo figlio…Eri tu” (“Un ballo in maschera”), “O Carlo, ascolta” (“Don Carlo”); Richard Wagner: “Wie Todesahnung… O du mein holder Abenstern” (“Tannhauser”); Wolfgang Amadeus Mozart: “Fin ch’han dal vino” (“Don Giovanni”). Staatskapelle Weimar, Stefan Solyom (direttore), George Gagnidze (baritono). Registrazione: Weimarhalle 2013, 1 CD Orfeo C210221
Otto anni non sono pochi nella vita di ciascuno noi e ancor meno lo sono nella carriera di un cantante, eppure questo è il lasso di tempo trascorso dalla registrazione del primo recital lirica del baritono georgiano George Gagnidze avvenuta nel 2013 e la pubblicazione in CD che ha dovuto attendere il 2021 per venire alla luce.
L’ottimo accompagnamento fornito dalla Staatskapelle Weimar sotto la guida di Stefan Soloyom forniva un solido supporto e un valido di biglietto da visita delle doti del baritono, formatosi nella natia Georgia ma affermatosi a livello internazionale sui palcoscenici tedeschi.
Gagnidze è un autentico baritono drammatico, la voce ampia e scultorea con l’ampia cavata che da sempre caratterizza le grandi voci georgiane a prescindere dal registro vocale. L’impostazione e il gusto lo portano inevitabilmente verso il repertorio verista e i brani di apertura da “Pagliacci” e “Andrea Chenier” lo dimostrano. La possanza della voce, l’ottimo squillo in tutta la gamma, l’autorevolezza dell’accento trovano qui terreno ideale e fanno perdonare una certa prosaicità che soprattutto la grande esplosione ideale di Gerard sembra naturalmente richiedere. La dizione italiana è nel complesso buona salvo una certa difficoltà nell’articolazione della consonante S che si riscontra qua e la.
L’aria di Germont da “La traviata” introduce alla lunga serie di brani verdiani che occupano la parte più consistente del programma. L’ascolto lascia sensazioni contrastanti, da un lato si apprezzano la qualità del materiale vocale, la ricchezza di armonici, la granitica sicurezza dall’altro non si può nascondere l’impressione di un approccio forse un po’ datato, un modo di leggere Verdi filtrato attraverso un gusto “veristeggiante”, perfetto negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, ma che oggi ha poca ragione di essere. Bisogna comunque riconoscere a Gagnigdze una volontà di cercare un canto più nobile e sfumato, più moderno. L’esito non sempre è pienamente compiuto, ma lo sforzo non può che essere apprezzato.
Convincono maggiormente le arie di “Macbeth” e “Nabucco” dove – pur mancando un maggior abbandono lirico nei cantabili – si apprezza la forza drammatica. specie nelle parti più declamate e il colore autenticamente drammatico. Forse una limitata disponibilità di mezzi in fase di registrazione, hanno purtroppo portato al taglio delle cabalette – particolarmente doloroso in “Nabucco” – nonché di tutti gli interventi del coro o di altri personaggi. Le arie del Conte di Luna da “Il trovatore” e del Marchese di Posa da “Don Carlo” (dove per altro dell’intera scena del carcere resta solo l’aria conclusiva “Io morrò ma lieto in cuore”) evidenziano maggiormente questi limiti. Forse sono queste le pagine in cui Gagnidze mostra la mancanza di un canto autenticamente nobile con un fraseggio più alato e anche una linea di canto più chiara e luminosa.
Delude invece “Eri tu…” (“Un ballo in maschera”). Gagnidze carica troppo l’accento, punta troppo al carattere negativo del personaggio, già a partire dalle frasi iniziali nel declamato iniziale l’accento eccede in mordente, così in “O dolcezze perdute” manca totalmente quell’abbandono sofferto e profondo che il canto qui dovrebbe esprimere.
Con gli ultimi due brani Gagnidze si avventura nel repertorio tedesco. L’omaggio alla Germania – paese cui Gagnidze deve moltissimo – è comprensibile e un materiale come quello a disposizione del cantante sarebbe decisamente interessante in Wagner. Non ci sembra felice però la scelta. Gagnidze sarebbe stato un Telramund o un Alberich interessante ma ci pare spaesato come Wolfram. “O du mein holder Abenstern” che richiede tutte quelle caratteristiche che mancano al canto di Gagnidze: emissione leggera e carezzevole, naturale nobiltà d’accento, slancio verso una dimensione urania. Il risultato – al netto della correttezza di fondo – non riesce quindi a essere soddisfacente.
L’ultimo brano “Fin c’han dal vino” dal “Don Giovanni” è un divertimento che il cantante si concede e come tale va preso. Siamo ovviamente lontanissimi da ogni senso stilistico ed è difficile darne un’interpretazione corretta. E’ un gioco e come tale va considerato.