Bergamo, Teatro Donizetti, Festival Donizetti Opera 2021
“MEDEA IN CORINTO”
Melodramma tragico di Felice Romani
Musica di Giovanni Simone Mayr
Creonte ROBERTO LORENZI
Egeo MICHELE ANGELINI
Medea CARMELA REMIGIO
Giasone JUAN FRANCISCO GATELL
Creusa MARTA TORBIDONI
Ismene CATERINA DI TONNO
Tideo MARCELLO NARDIS
Figli di Medea CHIARA DELLO IACOVO e ANDREA GUSPINI
Orchestra e Coro Donizetti Opera
Direttore Jonathan Brandani
Maestro del coro Fabio Tartari
Regia Francesco Micheli
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Giada Masi
Lighting design Alessandro Andreoli
Bergamo, Teatro Sociale, 04 dicembre 2021
Vi sono opere che sembrano trovare la propria ragione solo in contesti particolari com’è appunto un festival tematico. Titoli storicamente significativi ma privi di una forza musicale autonoma per ricavarsi uno spazio nei cartelloni tradizionali. “Medea in Corinto” appartiene decisamente a questo gruppo. Composta nel 1813 per Napoli l’opera fu radicalmente modificata da Mayr nel 1821 per il Teatro Sociale di Bergamo, è quindi più che condivisibile l’idea di omaggiare quello che forse è stato il maggior successo del compositore riportando la versione bergamasca dell’opera nel teatro in cui aveva visto la luce esattamente duecento anni fa.
Mayr è una figura di primo piano nella vita musicale italiani dei primi anni dell’Ottocento. Portatore delle innovazioni musicali del classicismo viennese aprì nuove vie espressive ai compositori italiani oltre a dimostrarsi didatta di tutto rispetto. La musica di Mayr è quella tipica di una generazione in divenire tra due mondi in cui la strada vecchia è stata lasciata e quella nuova non ancora trovata completamente. Il risultato è un linguaggio ibrido che sulla matrice del classicismo tardo-settecentesco apre spiragli che anticipano gusto e stilemi rossiniani. Musica di alto mestiere, opera di un abile artigiano che da il meglio di se nell’uso dell’orchestra – tra i momenti migliori troviamo certamente il preludio ma anche gli accompagnamenti di alcune arie – ma in cui latita una vera ispirazione e in cui invano si attende quel colpo d’ala che elevi l’ottimo artigianato ai livelli di autentica arte.
La versione bergamasca si distingue da quella napoletana – leggermente più nota se non altro per l’esistenza di alcune edizioni in CD e video – per presentare un organico orchestrale ridotto, un ritorno ai recitativi secchi e una radicale riscrittura della protagonista trasposta per voce di autentico soprano rispetto alla scrittura decisamente più grave originariamente pensata per la Colbran.
La produzione bergamasca ha il suo punto di forza nella direzione di Jonathan Brandani che offre una lettura particolarmente curata e attenda della partitura capace di evidenziare la qualità della scrittura orchestrale di Mayr. Ottime le scelte agogiche sempre finalizzate ad accompagnare i cantanti nel miglior modo possibile.
La compagnia di canto si disimpegna con solido professionismo. Carmela Remigio non è solo una veterana del festival ma una cantante che nel corso degli anni si è cimentata in un repertorio amplissimo ed è innegabile che questo si faccia sentire. La scrittura di Medea l’agevola non poco, più comoda nel registro grave, così come in quello acuto che, purtroppo emergono non poche tensioni. La Remigio resta un’interprete di rara intensità e un’ottima attrice capace di dare al personaggio un’innegabile spessore soprattutto sul versante umano e sofferto anche all’interno del taglio decisamente particolare dato dalla regia e su cui si tornerà.
Juan Francisco Gatell affronta Giasone con impegno. La parte non gli è troppo congeniale – decisamente centrale per la sua vocalità – e in alcuni punti si è percepito questo limite. Canta però con gusto e musicalità e la voce è sempre apprezzabile per timbro e colore. Ottimo attore risulta assai convincente sul piano scenico nei panni di un bullo di periferia superficiale e vanesio. Marta Torbidoni è una Creusa dalla voce lirica e radiosa capace di dare la giusta luminosità al personaggio. Vocalmente precisa è forse un po’ compassata sul piano dell’accento che avrebbe potuto essere più ricco e vario pur all’interno di una prestazione comunque convincente. Roberto Lorenzi è un Creonte autorevole vocalmente e scenicamente pur alle prese con un ruolo che ben poco concede nella sua linearità. Michele Angelini (Egeo) ci è parso qui decisamente più a suo agio che nel problematico “Marin Falliero” dello scorso anno. Il ruolo è altrettanto banale di quello di Creonte ma è portato a casa con solido mestiere e arricchito da una buona prestazione scenica.
Buona la prova di Caterina di Tonno come Ismene, piuttosto debole invece ci è parso Marcello Nardis come Tideo.
Resta la regia, una di quelle che non ammettono mezze misure, destinate ad essere idolatrate o detestate dalla personale sensibilità di ciascuno e con le quali è difficile mantenere uno sguardo neutrale e al riguardo non nego di avere più d’una perplessità. Francesco Micheli sposta la vicenda in una periferia degli anni 60 del Novecento che sappiamo essere Corinto solo dalle iscrizioni che compaiono sulla scena dove due famiglie – oltre alla coppia Medea-Giasone il regista immagina già sposati anche Creusa ed Egeo – vivo la loro piccola meschinità quotidiana che trascinandosi nel corso degli anni porta alla tragedia (per altro puramente immaginata restando attivi in scena i personaggi defunti) in una sorta di “Desperate Housewives” in chiave piccolo borghese. Il nuovo arrivato Giasone seduce la moglie del vicino di casa Egeo con i suoi modi da Marlon Brando di periferia scatenando le gelosie dei rispettivi coniugi. Nulla di particolarmente nuovo anche se bisogna dar atto a Micheli di saper far recitare tutti i cantanti con rara efficacia.La scelta di dare una visione demitizzata della vicenda può essere comprensibile, lo stesso libretto di Romani tende a rileggere il mito come puro schema narrativo senza alcun autentico senso tragico né tanto meno archetipico risultando di suo già non poco confuso. Il problema che si crea è che la regia anziché contribuire a dipanare la matassa la confonde sempre più. In un vorticoso passaggio dei personaggi da un letto all’altro, da un partner all’altro le cose si confondono sempre più. I personaggi rivolgono frasi di recitativo o intere arie a figure diverse rispetto a quelle cui sono destinate. I ruoli si confondono e si mischiano, forse questo vuole dirci il regista ma la comprensione ne risente. Non aiutano le scenette nella portineria tra Tideo e Ismene che richiamano l’estetica delle comiche alla Benny Hill calata a forza nel contesto della tragedia. Una visione del teatro slegata dal testo e dalla narrazione che sicuramente trova consensi tra i fautori dell’avanguardia ma che legittimamente può non convincere. I costumi di Giada Masi sono una galleria del costume dal mondo hippy anni 60 alla contemporaneità; essenziali e funzionali al contesto le scene di Edoardo Sanchi. Foto Gianfranco Rota