Giangiacomo Guelfi (Roma, 21 dicembre 1924 – Bolzano, 8 febbraio 2012)
Nel 1950 a Spoleto, si mise in luce vincendo il primo premio al concorso del Teatro Sperimentale, che lo portò a interpretare Rigoletto (opera poi scomparsa del suo pur vasto repertorio). Spiccaro subito le non comuni doti di robustezza e risonanza. Invitato l’anno seguente a prendere parte alla ripresa radiofonica di Attila, nell’ambito delle celebrazioni del Cinquantenario della morte di Verdi, ha bruciato da allora le tappe di una carriera ricchissima, anche se non lunghissima, imponendosi tra le presenze baritonali di spicco del dopoguerra. Una rapidissima ascesa che lo porta in tutti i maggiori teatri internazionali. Ad un ascoltatore attento quale Giacomo Lauri Volpi questo baritono “tonante” seppe carpire un riconoscimento non illegittimo (“Statura e voce gigantesche… Guelfi, per potenza e ridondanza vocale, si trova isolato non ha rivali sul campo”) e una saggia profezia (“Voci della sua mole vanno soggette a perdere, col tempo, resistenza e consistenza “): fondati l’uno come l’altro. Guelfi ha potuto svolgere una carriera brillante, primeggiando soprattutto laddove la maestosità ruvida di personaggi lo aiutava a far valere le ragioni di quel canto (Tosca, La Figlia di Iorio, Francesca da Rimini, Wally, La fanciulla del West, Aida, Lohengrin, ovvero una una galleria di “vilains”). Quell’abbagliante sonorità conteneva già i germi lenti e pericolosi dell’involuzione; col tempo il cantante imparò a gestire con maggiore saggezza lo strumento, avvertendo forse il rischio di quella fonazione e cambiando, qualore fosse possibile, il “carnet” delle presenze teatrali, fino al traguardi, non di rado convincenti, di Simon Boccanegra, Vespri Siciliani, Nabucco, Macbeth e in genere dell’autentico protagonismo; ma le crepe di un uso eccessivo del “medium” e dell’enfatizzazione del declamato non gli hanno consentito di mantenre una sana e solida vocalità, bruciata in un quindicennio, comunque, di autentico splendore.