Teatro Comunale – Stagione Lirica 2021
“IL TURCO IN ITALIA”
Dramma buffo per musica in due atti di Felice Romani.
Musica di Gioachino Rossini
Selim SIMONE ALBERGHINI
Fiorilla DANIELA CAPPIELLO
Don Geronio MARCO BUSSI
Don Narciso DIEGO GODOY
Prosdocimo WILLIAM HERNANDEZ
Zaida ALOISA AISEMBERG
Alzabar ENRICO ZARA
Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa De Carolis
Coro dell’Associazione Corale “Luigi Canepa”
Direttore Attilio Tomasello
Direttore del coro Luca Sirigu
Regia Alfonso Antoniozzi (ripresa da Marco Castagnoli)
Scene Monica Manganelli
Costumi Mariana Fracasso
Luci Tony Grandi
Allestimento della Fondazione Teatro Fraschini – Pavia
Sassari, 29 ottobre 2021
Dopo troppo tempo è sicuramente da salutare con favore il ritorno sulle scene locali di uno dei capolavori di Rossini maggiormente, e ingiustamente, in ombra della propria produzione; tuttora frettolosamente ridotto a lavoro minore sulla scia de L’Italiana in Algeri, in realtà costituisce l’ideale seconda parte di un dittico che, in maniera comunque assai differente, sfrutta l’allora già declinante gusto per l’esotismo mediterraneo e la moda “turchesca”. L’originalità dell’impianto drammaturgico e la brillante inventiva dei pezzi d’insieme ne fanno sicuramente una delle opere più importanti dell’autore, con una complessità nella scrittura spesso sconosciuta ai lavori precedenti. L’ormai storica prima edizione di trentotto anni fa aveva il suo punto di forza nell’accurata concertazione di Bruno Aprea e la debolezza nel protagonista, turco di nome e di fatto, semplicemente impresentabile; nella produzione di quest’anno, secondo appuntamento della stagione organizzata dall’Ente concerti Marialisa De Carolis, le cose sono andate diversamente, a partire da un cast equilibrato e a proprio agio con una scrittura veramente proibitiva per difficoltà tecnica, stile ed estensione vocale. Su tutti la coppia antagonista maschile Selim e Don Geronio, Simone Alberghini e Marco Bussi: veramente eccellenti per sicurezza e bellezza vocale, articolazione e disinvoltura scenica, hanno costituito l’autentico motore musicale e drammaturgico dell’opera, traducendo e risolvendo le asperità dei loro ruoli in autentico teatro musicale. Il loro duetto D’un bell’uso di Turchia non a caso è uno dei momenti migliori della serata per precisione, vivacità e controllo dell’espressione. Anche Daniela Cappiello, nel ruolo di Fiorilla, ha dato una buona prova mostrando sicurezza tecnica, ottima espressione e una buona presenza scenica, non supportata però da altrettanto peso vocale in confronto agli altri interpreti; positiva pure l’interpretazione di Diego Godoy, nei panni di Don Narciso, che, al di là di alcune forzature sugli acuti, ha ben risolto con uno stile complessivamente apprezzabile le infernali colorature destinate da Rossini per il celebre Giovanni David, primo interprete del ruolo. William Hernandez ha disegnato in maniera credibile e vivace la figura meta teatrale del poeta Prosdocimo, nonostante la sua peculiare interazione scenica non fosse particolarmente evidenziata dalla regia. Positive complessivamente anche le prove della Zaida di Aloisa Aisemberg, ben caratterizzata e precisa ma con un vibrato non sempre controllato, e dell’Albazar di Enrico Zara.
Se hanno funzionato gli interpreti non si può dire la stessa cosa della concertazione di Attilio Tomasello: la genericità nelle dinamiche e del fraseggio, specialmente in orchestra, ha condotto il tutto a una certa uniformità espressiva che non può essere risolta solo dalla motricità ritmica. Erano inoltre evidenti vari problemi d’insieme tra buca e palcoscenico, con un certo affanno soprattutto negli archi per una scrittura difficile che probabilmente avrebbe richiesto più prove e un organico meno ridotto. Non sono mancate comunque in orchestra belle frasi individuali, come l’ottimo solo del corno nella sinfonia e va segnalata anche la fantasiosa e vivace realizzazione dei recitativi; al netto dei problemi ritmici di cui sopra, è stata apprezzabile anche la prestazione della Corale Canepa, istruita con buon stile da Luca Sirigu.
Dell’allestimento scenico, ripreso dal Teatro Fraschini di Pavia, si può dire che è figlio dell’essenzialità di questi tempi, ma anche che la differenza tra essenzialità e povertà è talvolta scivolosa. La regia di Alfonso Antoniozzi ripresa da Marco Castagnoli, con le scenografie di Monica Manganelli, si basa sull’idea, non certo nuova, di un palcoscenico vuoto animato da proiezioni sul fondale e le quinte laterali. Ma i pur bei video e le luci di Tony Grandi non bastano sempre a dare volume e definizione a uno spazio che poteva essere maggiormente coerente in questa visione, a partire dalla cura anche del pavimento, che avrebbe dovuto essere almeno rivestito per ottenere un effetto maggiormente rigoroso. Inoltre ha reso uniforme la prospettiva l’assenza di qualunque sviluppo verticale, con una scena appena indicata da semplici arredi occasionali (panchine, sedie, un letto, un mucchio di libri ecc.) e dei costumi, ben realizzati da Mariana Fracasso, il cui aggiornamento al secolo scorso in realtà poco aggiunge all’ambientazione originale. Lo spettacolo comunque nel complesso è gradevole e funziona grazie ai curatissimi movimenti e alle geometrie sul palcoscenico, specialmente nelle scene d’insieme, con una vivacità ben calibrata e gestita che non scade mai nella forzatura, mentre le proiezioni sottolineano le azioni con un piacevole sviluppo grafico, ricco di citazioni e richiami. Ottima anche la direzione scenica degli interpreti, fondamentalmente di taglio naturalistico, senza il bisogno di rimpinzare di macchiette e controscene ogni minuto di un teatro che è e rimane essenzialmente musicale. Il pubblico, forse orfano di un titolo facente parte della dozzina di opere che ha sentito nominare, forse ancora poco informato sulla fine del contingentamento dei posti a teatro, non era numeroso, ma ha applaudito calorosamente tutti gli autori e interpreti dello spettacolo.