Piacenza, Teatro Municipale – Stagione d’Opera 2021-22
“LE CONVENIENZE E INCONVENIENZE TEATRALI”
Opera buffa in due atti su libretto di Domenico Gilardoni, tratto da “Le convenienze teatrali” e “Le inconvenienze teatrali” di Antonio Simone Sografi.
Musica di Gaetano Donizetti (revisione di Vito Frazzi)
Corilla GIULIANA GIANFALDONI
Procolo NICOLÒ DONINI
Agata MARCO FILIPPO ROMANO
Luigia PAOLA LEOCI
Dorotea SILVIA BELTRAMI
Guglielmo MATTEO DESOLE
Biscroma Strappaviscere ANDREA VINCENZO BONSIGNORE
Prospero Salsapariglia STEFANO MARCHISIO
Sovrintendente DARIO GIORGELÈ
Ispettore del Teatro JULIUSZ LORANZI
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Orchestra Filarmonica Italiana
Ensemble Capital Ballet
Direttore Giovanni di Stefano
Maestro del Coro Corrado Casati
Regia Renato Bonajuto
Scene Danilo Coppola
Costumi Artemio Cabassi
Luci Michele Cremona
Drammaturgia Alberto Mattioli
Coreografie Riccardo Buscarini
Nuovo allestimento in coproduzione Teatro Municipale di Piacenza, Teatro Coccia di Novara, Teatro dell’Opera Giocosa di Savona
Piacenza, 17 novembre 2021
Assistiamo all’anteprima de “Le convenienze e inconvenienze teatrali” di Donizetti al Teatro Municipale di Piacenza e non capiamo cosa abbia effettivamente convinto il teatro a portare in scena una simile versione dell’opera – nella sua variante in due atti, peraltro. Il desiderio di un’opera leggera? La voglia di sperimentare? Fatto sta che si è usato un libretto del tutto diverso da quello che il buon Gilardoni approntò per il Cigno di Bergamo, un testo composto da Alberto Mattioli – illustrissimo nome dell’opera – che prende la satira ottocentesca e la attualizza, inserendovi, in ordine sparso: Muti, le mail, Castell’Arquato, il Regietheater, i telefonini, i followers, Cristina Ferrari (direttrice del teatro di Piacenza), lo stesso Mattioli, le edizioni critiche, lo sponsor, controtenori che mandano messaggi vocali e, tutte in fila, la Bartoli, la Netrebko e la Gheorghiu. La ragione, ben esposta sul materiale di sala, è che nessuno capisce la satira dell’Ottocento, ed è certo una cristallina verità. Però fra un recitativo “moderno” e l’altro, fra le varie citazioni di altre opere, noi abbiamo i numeri musicali nella lingua del 1831, un linguaggio vivo e colloquiale, pungente e connotato, che, con buona pace di Mattioli, mal si accosta ai social e al suo testo. Ma se pure ammettessimo che la fusione linguistica funzioni, abbiamo qualcosa di ben più forte e ottocentesco, che è la partitura di Gaetano Donizetti che non può condividere nulla con la parole contemporanea senza risultare forzato. Poco importa che, come dichiara ancora l’autore, oggi in Italia non si vedano opere contemporanee e si preferisca tirar fuori “dallo scantinato” “la solita rarità barocca”: l’opera, per essere vera arte, deve essere espressione della letteratura, della musica e delle arti figurative del suo tempo; il fatto che già contravveniamo a questa terza istanza (mediante messe in scena più o meno fantasiose) non ci autorizza a venir meno anche alla prima. Anche perché, ribadiamo, l’éscamotage funziona per poco, alla lunga perde di interesse (adottare la formula in atto unico forse avrebbe aiutato), benché sia un pastiche di livello alto, con alcune trovate azzeccate. Ma la grande vis comica dell’opera deriva, ancora oggi, da ciò che fu scritto duecento anni fa, non dal nuovo, e si concentra nel personaggio tentacolare di Agata Scannagalli, la mamma del giovane talento Luigia, pronta a invadere la vita della figlia alla ricerca di visibilità più per se stessa che per la pargola. Se bene interpretata (e qui è certo splendidamente interpretata) Agata si sobbarca il successo dell’intera pièce, perché incarna l’esasperazione archetipica e ne scardina la serietà – facendola interpretare a un uomo, mettendole in bocca il dialetto, dandole l’irruenza di un carro armato. Di fronte a questa evidenza, i tentativi di attualizzazione risultano ancora più risibili e poco graditi. Sia ben chiaro: lo spettacolo in sé è godibilissimo, merito del cast talentuoso, della regia di Renato Bonajuto e della sua squadra, ma probabilmente lo sarebbe stato anche usando il libretto di Gilardoni con i suoi riferimenti ottocenteschi. In ogni caso, se si volesse testare le capacità attorali di qualche cantante, certamente quest’opera e questa regia sarebbero un ottimo test: alcuni performer, infatti, recitano più che cantare (Nicolò Donini, Stefano Marchisio e Andrea Vincenzo Bonsignore, nelle parti di Procolo, Prospero Salsapariglia e Biscroma Strappaviscere, rispettivamente marito della primadonna, regista e direttore d’orchestra nella vicenda), e anche chi canta di più deve sfoderare buone doti recitative – più di tutti, ovviamente, il baritono incaricato del ruolo di Agata, qui un Marco Filippo Romano strepitoso, un fiume in piena di gag e buon canto tutto sapientemente fraseggiato senza soluzione di continuità. Ecco allora che giustamente pedante e acida nei modi, quanto squillante ed espressiva nel canto, è Paola Leoci (Luigia), che ci offre una bella prova di mezzo carattere, con una linea di canto coerente al personaggio e una vocalità “tagliente”; suo perfetto contraltare è Giuliana Gianfaldoni (Corilla) dal canto vellutato, tutto giocato su belle mezzevoci, ma nel contempo padrona di in brillante canto d’agilità: la primadonna, che si diverte nei virtuosismi e nel “festival della cadenza”, come chiosa il nuovo libretto.Terza voce femminile è quella mezzosopranile di Silvia Beltrami, in un ruolo che si vorrebbe semplicemente femminile (Dorotea Frangipane), ma che questo adattamento trasforma in una donna che finge controtenore per lavorare: oltre alla verve comica, la Beltrami si destreggia con una certa naturalezza anche nel canto. Fra gli interpreti maschili si staglia la rutilante personalità scenica e vocale di Marco Filippo Romano, non gli è certo da meno per intelligenza musicale Matteo Desole, nella parte del tenore tedesco Guglielmo Antolstoinoloff, che canta con irresistibile comicità (sbagliando e “stonando”) e con tecnica solida, al servizio del fraseggio (ma senza rinunciare all’accento mitteleuropeo). I già citati Donini, Bonsignore e Marchisio senza dubbio cantano correttamente i loro ruoli risicati, così come Juliusz Loranzi nel ruolo dell’Ispettore del Teatro; convincente anche la satira di un certo sovrintendente francese che porta in scena Dario Giorgelè (Sovrintendente), sia sul piano scenico che su quello musicale. L’apporto del Coro (anche questo un cameo, più che un ruolo vero e proprio) è ben organizzato e piacevole, come pure la direzione di Giovanni di Stefano, la cui verve agogico-dinamica ben si applica al rapido susseguirsi di scenette e motteggi della scena. La scena è senz’altro un’ennesimo motivo di elogio: Danilo Coppola coglie perfettamente il senso d’avanspettacolo dell’intera produzione, e riproduce tutta una serie di siparietti – fra telette scenografate e “stracci di scena”, interni di camerini e gigantesche valve di conchiglie, fino alla scena finale in salsa romana. Sulla stessa lunghezza d’onda anche i costumi di Artemio Cabassi, citazionisti al punto giusto, tra la parodia d’opera e il mondo della “rivista”, e ovviamente Renato Bonajuto, abilissimo burattinaio di questi personaggi bidimensionali e tratteggiati tutti “sopra le righe”. Resta, tuttavia, l’iniziale amarezza per uno spettacolo che non è quello che promette di essere: forse avergli dato un altro titolo, presentandolo come una sorta di rivista di belcanto di moderna fattura, avrebbe reso a ciascuno il suo merito o demerito, senza doversi per forza trincerare dietro al prestigioso nome di Donizetti. Foto Gianni Cravedi