Gioachino Rossini (1792-1868): “L’occasione fa il ladro” (1812)

Burletta per musica in un atto. Libretto di Luigi Prividali.
Prima rappresentazione: Venezia, Teatro San Moisè, 24 novembre 1812.
Primi interpreti:
Luigi Pacini (Parmenione)
Gaetano Del Monte (Eusebio)
Giacinta Canonici (Berenice)
Tommaso Berti (Alberto)
Filippo Spada (Martino)
Carolina Nagher (Ernestina)
Nel 1812  per il Piccolo Teatro di San Moisè, Rossini compone in una settimana L’occasione fa il ladro, una “burletta per musica” che con trascuratezza un po’ colpevole gli ha scritto un certo Luigi Prividali. Questa farsa non vale La scala di seta. Era la quinta opera lirica composta quell’anno da Rossini e la sua ispirazione aveva un po’ il fiato corto.
La prima scena di introduzione con Don Parmenione, il quale decide di usurpare l’identità del Conte Alberto per presentarsi alla sua fidanzata Berenice, è lunga e statica.
Ma i preludi orchestrali, con i loro assolo di flauto, di clarinetto e pizzicato dei violini, conferiscono un estrema trasparenza, una sorta di azzurro mediterraneo al clima della commedia. La prima cavatina di Berenice ha ancora accenti mozartiana. La fanciulla attende l’innamorato che non conosce. Ha paura, è felice. In lei la sensualità è in conflitto con il pudore. il suo canto è delicato, misurato di una tenerezza contenuta.
Don Parmenione si colloca nella migliore tradizione dei bassi buffi. Il suo duetto con Ernestina, che si fa credere Berenice, è gustoso e strampalato.
Ma anche alle prese con la più folle inverosimiglianza, Rossini non sacrifica mai nulla l’effetto gratuito del burlesco. In altre parole non si mette al servizio del libretto, ma lo piega piuttosto alle proprie intenzioni. Ernestina e Parmenione si piacciono, e allora Rossini lascerà filtrare La nascente felicità dei due innamorati attraverso la situazione strampalata! Ecco il nucleo del suo talento: lo spessore che è capace di conferire alla “pochade” più insignificante! Con tutto ciò la sua opera conserva una sorprendente unitarietà. Il bel duetto melanconico del tenore del soprano, Alberto e Berenice, risuona subito dopo come un’eco più toccante e non come una rottura con la scena precedente. L’opera si anima leggiadramente verso la fine, quando Berenice, che subdora l’inganno, tormenta Parmenione, lo incita a mentire, a tradirsi, ad ammettere la propria doppiezza. Rossini comanda a bacchetta questo piccolo mondo. Come un domatore, fa saltare i suoi personaggi, li fa cantare, fa compiere loro mille capriole, e tutto questo senza violenza, senza crudeltà, giusto con il sorriso, con un ironia mordace e con il frustino delle sue biscrome.
Ben presto è Berenice che prende le redini della situazione. Dopo tutto è donna, è nata dall’immaginazione melodica di Rossini ed è dunque fatta per trionfare degli uomini, abbindolarla, vezzeggiarla ed illuminarsi nella ricerca di una felicità sensuale sgombra dall’idea medesima del peccato. Nel suo terzetto con i due uomini, moltiplica gli ornamenti del canto e i suoi trilli vibrano come dei battiti di palpebra che lì ammaliano. Il duetto che segue con Alberto è uno dei più semplici e dei più belli di tutto Rossini a motivo della sua sconvolgente tenerezza e della sua sensualità così poco dissimulata. Com’è cambiata in meno di un’ora e mezza la bella Berenice! Nella sua prima cavatina temeva un poco l’amore. Alla fine non teme più nulla: tiene gli occhi bene aperti per trascinare Alberto nel più gradevole dei naufragi. (Da “Gioachino Rossini” di Fréderic Vitoux”, Parigi, 1982)