Teatro Filarmonico di Verona, Il Settembre dell’Accademia XXX° Festival Internazionale di Musica 2021
Pianoforte Lucas Debargue
Johann Sebastian Bach: Concerto Italiano BWV 971; Robert Schumann: Sonata n. 3 in fa minore op. 14 “Concerto senza orchestra”; Gabriel Faurè: Barcarolle n. 3 in sol bemolle maggiore Op. 42; Ballade in fa diesis maggiore Op. 19; Aleksandr Nikolaevic Skrjabin: Sonata n. 4 in fa diesis maggiore Op. 30 (Andante – Prestissimo volando); Fantasia in si minore op. 28
Verona, 27 settembre 2021
Assistere ad un recital di pianoforte, più che ad altri generi di performance, significa esseri introdotti nell’intimità di un rapporto, quello personalissimo tra un interprete e il suo strumento, e tra questi ed un repertorio. Il mondo del pianismo solistico è decisamente un universo particolareggiato in cui convivono personalità musicali così diverse da potersi dire parallele, tante e tali da far tremolare i concetti comprensivi di scuole o di stili. È dunque tratto in inganno, forse, chi tenta di ricondurre un’esecuzione pianistica ad una certa tradizione, lemma le cui lettere sembrano distanziarsi tra loro così tanto da generare spazi infiniti, all’interno dei quali trova accoglienza ogni genere di riflessione, di visione, di coscienza. All’interprete il compito di riempire quello spazio con dignità e potere di convincimento, a noi quello più lieve di indovinare, dietro il fenomeno sonoro, i tratti della persona e del suo percorso artistico. Quelli di Lucas Debargue, classe 1990 e vincitore del XV Concorso Ciaikovsky di Mosca, si discostano molto dalle tendenze, e ciò si evince dalla scelta di un repertorio ricercato, tendente all’intellettualismo, e uno stare sul palco semplice, a tratti informale. Il programma che Debargue propone è rivelatore di quel percorso musicale che, ci assicura il programma di sala, non è per nulla convenzionale, e della curiosità di questo interprete che unisce alla sua professione “studi avanzati di letteratura e filosofia”. Quanto all’approccio con la tastiera, il tocco di Debargue si direbbe cameristico, esile, mai aggressivo; i suoi toni, ricchi di sfumature, sono colloquiali, e forse meriterebbero spazi più concentrati della grande sala del Filarmonico.
Una certa impazienza nel raggiungere lo strumento ad inizio del concerto, ci ha fatto presagire una dose di ansia, che si è materializzata in una esecuzione del Concerto Italiano di Bach esatta ma poco caratterizzata, certamente ben orchestrata nei piani dinamici dei tutti e dei solo previsti dall’autore, ma non sufficientemente croccante dal punto di vista dell’articolazione e del temperamento. A tal proposito, quell’italienischem “gusto” che Bach titola, sembra evocare a parer nostro anche una certa verve, oltre che un preciso stile di scrittura che egli conosceva profondamente, che nell’interpretazione di Debargue ha latitato (perché, ad esempio, slentare quel salto di ottava discendente che dà vita al Presto finale, quasi a conferirgli un che di pomposo, se si è subito smentiti dall’entusiasmo della scala ascendente e delle figurazioni ostinate che seguono?). Anche nella lettura del movimento centrale del Concerto, gemma di commovente bellezza, abbiamo avvertito la mancanza di uno spazio di meraviglia e di meditazione, emozioni a cui talvolta si indulge troppo; e tuttavia bisogna pur concedere delle soste, od una meta, a quel moto al quale l’”andante” allude, moto che invece, sotto le dita di Debargue, è rimasto fine a se stesso.
Quell’impazienza cui accennavamo, all’inizio solo sospettata, si è fatta palese nella Sonata in fa minore di Schumann, che Debargue ha voluto attaccare mentre il pubblico applaudiva ancora la sua esecuzione precedente, cosa che non solo non ci ha permesso di ascoltare quell’epico incipit ma che, tutto sommato, è anche poco riguardosa verso questa forma di espressione di gradimento.
Quanto detto sull’esecuzione del Concerto bachiano, fatte le debite distinzioni, può dirsi anche dell’esecuzione di questa impervia composizione, densa di disperata e febbrile liricità. A fronte di una scelta di tempi esatta ed una apprezzabile leggerezza digitale, all’esecuzione è mancato un respiro ampio, totale, uno slancio che ne tenesse in piedi le ossa e le midolla. Alcuni crescendi, certe repentine intensificazioni della trama sonora, tipici dello stile schumanniano, nell’esecuzione di Debargue parevano mancare di compimento, così da lasciarci l’impressione, a musica conclusa, che questo capolavoro sia effettivamente manchevole di qualcosa. Aggiunto a ciò come accadeva per Bach, certi allentamenti di ritmo hanno infiacchito quell’humor che non di rado balena improvvisamente in questa musica, così intimamente instabile.
La seconda parte del concerto è stata indubbiamente di migliore qualità di quella appena descritta, ed in maniera netta, aperta da una misconosciuta Barcarola Op. 42 di Faurè, autore raramente frequentato dai pianisti, e ci verrebbe da dire che ciò si deve in gran parte alla difficoltà tecnica, a dir poco astrusa, che pagine come questa Barcarola e la successiva Ballata Op. 19, sempre proposta da Debargue, pongono. Si tratta di una scrittura che, mentre esplora le sonorità tipiche della Francia di tardo Ottocento, ricerca costantemente una intricata polifonia, quasi a sostegno di intuizioni coloristiche ancora troppo giovani e incerte. Ma Debargue, nell’inusuale, sembra completamente a suo agio, e in questi brani sfoggia un ventaglio di sonorità impalpabili assai ampio, ed una tecnica tutta di volante leggerezza che stempera quel tessuto contrappuntistico in una fresca semplicità e velocità tali da conferire a questa musica una spontaneità che sulla carta sembra mancarle.
Simili qualità del pianismo di Debargue hanno contribuito alla riuscita dei due brani di Scriabin che completavano questo programma di certo non popolare, ossia la Sonata n. 4 e la splendida Fantasia op. 28. In queste pagine Debargue finalmente ci regala attimi di puro incanto, conducendo l’ascolto ai limiti dell’udibile e plasmando quegli inquieti motivi con una tensione nervosa ed un rubato molto appropriati.
Il pubblico del Filarmonico ha risposto con grande entusiasmo ai fuochi d’artificio dell’ultimo pezzo, e l’abbondante applauso che ne è seguito ottiene un primo bis: un’altra breve pagina di Faurè, armonicamente ancor più ostica delle precedenti. Allorché, interpretando forse il pensiero di una buona fetta del pubblico presente e di quello che solitamente frequenta questi appuntamenti veronesi, una voce in sala ha osato chiedere all’interprete “qualcosa di orecchiabile”. Richiesta non certo lusinghiera ma comprensibile, alla quale Debargue, per tutta risposta, ha reagito suonando qualcosa di contemporaneo che nemmeno noi siamo riusciti a riconoscere. Ci piace pensare che l’interprete non abbia voluto accontentarla solo per un difetto di comprensione della lingua italiana.