Bologna, Teatro Comunale, Stagione d’Opera 2021-22
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Opera buffa su libretto di Cesare Sterbini, tratto dall’omonima commedia di Pierre Beaumarchais.
Musica di Gioachino Rossini
Il Conte d’Almaviva CÉSAR CORTÉS
Figaro ROBERTO DE CANDIA
Rosina PAOLA LEGUIZAMÓN
Don Bartolo MARCO FILIPPO ROMANO
Don Basilio ANDREA CONCETTI
Berta LAURA CHERICI
Ambrogio PAOLO FARONI
Fiorello NICOLÒ CERIANI
un Ufficiale GIANLUCA MONTI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Pier Giorgio Morandi
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Federico Grazzini
Scene Manuela Gasperoni
Costumi Stefania Scaraggi
Luci Daniele Naldi
Produzione del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 23 ottobre 2021
Sebbene molto applaudita al suo debutto, l’anno passato, questa resa scenica bolognese de “Il barbiere di Siviglia” mostra più di qualche limite: in generale la sensazione è quella che non sia una messa in scena all’altezza della Sala del Bibbiena, ma più adatto a un opera studio, o comunque a un luogo meno sontuoso. Benintesi: è una scena che funziona, nel suo ridurre ai minimi termini cambi, attrezzeria, orpelli vari, ma all’apertura del sipario il contrasto – in primis coloristico, visti i colori quasi fluo utilizzati – colpisce non piacevolmente; inoltre Manuela Gasperoni, scenografa, lavora in evidente pieno concerto con la regia di Federico Grazzini e i costumi di Stefania Scaraggi, giacché ogni elemento è coerente con l’altro, amplificando questo senso di inadeguatezza. È una regia che strizza l’occhio ai fumetti e ai cartoon di una volta? Senza dubbio. È un impianto scenico-costumistico pop, leggero, disimpegnativo? Senz’altro. Cosa dunque non funziona? Non funziona, ad esempio, l’accostamento al lungo saggio di Baccolini sul libretto di sala, che ci vorrebbe invece convincere della serietà di Rossini nel considerare questa sua creazione; non funziona l’ennesimo tentativo di abbassare il “Barbiere” (magnifica creatura illuminista, rivoluzionaria, senz’altro guascona e dissacrante) in un frappé zuccheroso e colorato; non funziona la furbesca mescolanza di presente e passato, di teatrale e metateatrale – quasi post-drammatico, nei momenti in cui il cast balla come se fosse ad un villaggio vacanze.È senz’altro una presa di posizione provocatoria, la nostra, ma lasciamo che sia il mondo e non il mondano ad entrare a teatro. Per quanto gli interpreti siano buffi nel ballare al ritmo del finale – da “Non più t’accheta” – , avremmo preferito una effettiva scelta di regia, non la versione teatrale di un veglione di Capodanno, è troppo facile ridurre a questo Rossini – e non solo nel “Barbiere”: pensiamo alla lunghissima scena ventiseiesima del “Viaggio a Reims”, ad esempio. Forse è per questo che critici, certo più importanti di chi scrive, hanno posto l’accento della regia sul finale del primo atto, in cui un’enorme palla da demolizione tenta di spazzar via tutto: perché è tragicamente decontestualizzata, porta il discorso sul livello dell’assurdo, si presta, insomma, a una riflessione; che delusione vedere che tutto è più o meno immutato all’inizio del’atto seguente! Sarebbe stato interessante se la casetta di legno con la sua staccionata bianca fosse stata spazzata via, come nel “Mago di Oz”. Invece è come se nulla fosse stato: riprendiamo con la stanca pochade di Don Alonso prima e Don Basilio poi. Peccato. Musicalmente parlando non possiamo che apprezzare alcuni degli interpreti: Roberto de Candia è un Figaro sornione e accattivante; vocalmente siamo di fronte a un’interpretazione solida, ricca di mordente, di grande intelligenza musicale e dalla spiccata disinvoltura scenica. Si conferma ancora una volta la straordinaria capacità di Marco Filippo Romano nel dare vita a Don Bartolo: musicalmente e teatralmente Romano è un irresistibile mattatore, che con la sua esuberanza, ma anche l’ottima padronanza del ruolo vocale, conferisce al personaggio sempre qualche nuova sfumatura, un pizzico di credibilità in più. Una bella scoperta il talento di Paola Leguizamón, giovane mezzosoprano colombiano: suono tondo e ben timbrato in tutta la tessitura, la sua Rosina presenta anche una considerevole cura nel fraseggio e una grande scioltezza scenica; attendiamo di poterla vedere in altri ruoli. Il suo conterraneo César Cortés, nel ruolo di Almaviva, convince meno: scenicamente un po’ rigido, vocalmente, per quanto intonazione e proiezione siano senza dubbio corrette, la linea di canto è discontinua e il suono non sempre a fuoco; tuttavia, considerata la giovane età di Cortés (poco più che trentenne), avrà certamente modo di affinare la tecnica. Valido l’apporto di Andrea Concetti (Don Basilio) e Nicolò Ceriani (Fiorello), mentre Laura Cherici è una Berta non sempre vocalmente a fuoco. Efficace la prova del coro, diretto da Gea Garatti Ansini, così pure la direzione del maestro Pier Giorgio Morandi, seppur con qualche disomogeneità, forse un po’ svogliata – la buca e la scena sono quasi sempre in sintonia, perché la bacchetta sembra seguire i cantanti più che farsi seguire. Ma queste, forse, sono sottigliezze: il pubblico non se ne accorge e tributa entusiastici applausi a tutti. Foto © Andrea Ranzi (Casaluci-Ranzi)