Enrico Caruso (Napoli, 25 febbraio 1873 – 2 agosto 1921) a cento anni dalla morte.
Era il primo a ridere di cuore delle sue stesse battute, ma quando si metteva a cantare la magia lirica della sua voce faceva di lui un idolo vivente. Per me, comunque, Caruso è qualcosa di più di un mito. Era l’uomo più cordiale, e gentile e generoso che mi fosse mai capitato di conoscere. Negli anni che lavorai e con lui come segretario gli scoprii un solo difetto: quello di obbligarmi a mangiare le stesse cose che mangiava lui. Alla vigilia di ogni rappresentazione il suo menù era: magnesia e fichi per cena e spinaci e uova sode, che aveva fatto bollire per un’ora, a colazione. E pretendeva anch’io osservarsi la sua stessa dieta.
Sebbene i tenori abbiano fama di essere tipi piuttosto intrattabili, Caruso era un uomo semplice, dotato di grande comunicativa. “detesto la vanità” mi disse una volta. “è una manifestazione di ignoranza e stupidità”. il pubblico adorava Caruso e nutriva per lui lo stesso affetto che una madre ha per un figlio che le dà molte soddisfazioni. Era incorreggibile burlone e la sua innata allegria non aveva limiti. Durante una rappresentazione della Gioconda, per esempio, fece scivolare nelle mano del baritono un uovo e si diverti poi a vedere tutti gli sforzi che il malcapitato faceva per liberarsene. Nel quarto atto di Bohème il basso rivolge un tenero addio alla sua zimarra, quindi la indossa. Una volta il basso che interpretava quel ruolo scoprì, con suo grande stupore, che Caruso gli aveva cucito insieme le maniche della zimarra. Durante un’altra rappresentazione di Bohème, Nellie Melba, che cantava nel ruolo di Mimì, al momento della commovente scena della morte notò che ogni volta che Caruso si chinava su di lei si sentiva uno strano squittio. Il cantante aveva nascosto in una mano un giocattolo di gomma e lo strizzava facendoglielo suonare nell’orecchio!
Caruso nacque a Napoli nel 1873 ed era il diciottesimo di 21 figli. Suo padre faceva il meccanico ed Enrico, che tutti chiamavano Errico o Carusiello, era un bravo ragazzo e uno scolaro diligente. Per 2 anni lavorò in una fabbrica di fontane, poi riprese gli studi di ragioneria e ha 16 anni si diplomò. Nel suo tempo libero si esibiva cantando nei caffè e nei bagni pubblici e metteva da parte le monetine che gli piovevano ai piedi. Fu dal 1894 all’età di 21 anni che si potete dedicare completamente al canto. Quell’anno debuttò nella lirica con un opera presso dimenticata, L’amico Francesco. Le 80 lire che gli diedero per le quattro recite gli bastarono appena a coprire le spese. Alcuni anni dopo sarebbe arrivato a ricevere più di sei milioni per ogni rappresentazione.
Caruso ebbe da Ada Giachetti – un soprano che aveva cantato con lui in Italia – due figli. La loro relazione durò 11 anni, poi lei lo lascio per un altro. Nel 1918 Caruso sposò una giovane americana, Dorothy Benjamin, che gli diede una figlia, Gloria. Caruso ci teneva moltissimo all’eleganza e una cura scrupolosa alla propria persona. La prima volta che andò a cena da Dorothy Benjamin indossava il costume di scena di Julien, il protagonista dell’Opera omonima di Charpentier. In seguito disse a Dorothy: “Me lo misi così perché ti ricordassi di me”. Quando lo conobbi si faceva fare manicure, pedicure e tagliare la barba e i capelli ogni giorno. Più di una volta capitava che studiasse gli spartiti seduto in poltrona mentre manicure barbiere si occupavano in silenzio di lui e il suo accompagnatore suonava al pianoforte. A volte poi capitava che mentre faceva il bagno nella stanza accanto un pianista e gli suonasse brani di musica.
Il repertorio di Caruso comprendeva ben 93 ruoli, ma forse quello nel quale il pubblico lo preferiva era Canio dei Pagliacci. Ogni volta che cantava il famoso brano “Vesti la giubba” il teatro veniva letteralmente giù. Penso che Caruso non abbia mai cantato tanto bene quest’aria come una volta, a Londra. aveva appena ricevuto due notizie sconvolgenti: Il padre era morto e la moglie lo aveva lasciato. Quella sera all’ Albert Hall il pubblico londinese fece quasi crollare, per gli applausi, il teatro ignorando che Caruso aveva trasfuso nella sua interpretazione il suo dramma personale. Spesso gli chiedevano cosa occorresse a un cantante per diventare un grande interprete. E lui era solito rispondere: “Un gran torace, una gran bocca, il 90% di memoria, il 10% di intelligenza, un sacco di duro lavoro e qualcosa in cuore”. A proposito di se stesso poi diceva: “La vita mi procura molte sofferenze. Quelli che non hanno mai provato niente, non possono cantare”. A Caruso “piaceva essere nervoso” prima di andare in scena. Ricordo che tendeva il braccio e se la mano tremava era felice, se invece rimaneva immobile aggrottava la fronte e diceva: “Devo fare qualcosa per diventare nervoso”. (Fine prima parte)
(Estratto da “Enrico Caruso oltre la leggenda” di Bruno Zirato*)
* Bruno Zirato fu segretario di Enrico Caruso negli ultimi anni di vita del cantante. In seguito fece lo scopritore di talenti al Metropolitan di New York. Nel 1927 passò alla New York Philharmonic presso la quale rimase cone consigliere delegato fino al 1959)