Torino, Cortile di Palazzo Arsenale, Regio Opera Festival 2021
“LA SERVA PADRONA”
Intermezzo buffo in due parti. Libretto di Gennarantonio Federico
Musica di Giovanni Battista Pergolesi
Uberto basso MARCO FILIPPO ROMANO
Serpina mezzosoprano FRANCESCA DI SAURO
Vespone, servo di Uberto, mimo PIETRO PIGNATELLI
Orchestra del Teatro Regio di Torino
Direttore Giulio Laguzzi
Maestro al cembalo Carlo Caputo
Regia Mariano Bauduin
Scene Claudia Boasso
Costumi Laura Viglione
Luci Andrea Anfossi
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 17 Luglio 2021 (prima rappresentazione)
A Napoli, il 28 agosto del 1733, nel Teatro di San Bartolomeo, si creava “Il Prigionier superbo. Dramma per musica in tre atti” di Giovanni Battista Pergolesi, per intrattenere gli spettatori nei due intervalli e per sollevare loro lo spirito, fiaccato da tanto dramma, come ai bei tempi antichi con le tragedie, si inframmezzò, opportunamente ed equamente bipartito, l’Intermezzo buffo, del medesimo autore, “La serva padrona”. Il tutto doveva occupare e forse deliziare gli spettatori per un’intera serata, 4 ore al minimo: 3 per il dramma e 1 per l’intermezzo, senza contare le pause per caffè, sorbetto (uffa il caldo di fine agosto a Napoli!) e igieniche. Il Regio ci ha risparmiato un tale tour de force; confinato ormai il Prigionier superbo, in tutta l’italica penisola, eccezion fatta per Jesi, nel deposito delle opere da ignorare, si è concentrato sull’intermezzo buffo, evitando pure di comprometterne la travolgente vis comica accoppiandolo ad altro. 50 minuti abbondanti di godimento culturale e poi via dal caldo e dalle zanzare. Come dice Rodolfo “la brevità, gran pregio.” … o anche no?
Il Teatro di San Bartolomeo, 34 palchetti e 320 posti in platea, offriva uno spazio ideale per intendere e gustare i timbri e gli sghiribizzi dei pochi strumenti che la prassi e il risparmio di risorse imponevano. Certamente il cembalo, che sosteneva ed accompagnava i recitativi, doveva godere di un suo peculiare protagonismo e gli attori aver aggio di sfogare tutta la loro professionalità. In un immenso e sordo cortile piatto, è eroico far rivivere Serpina e Uberto.
Francesca di Sauro e Marco Filippo Romano, in barba alle difficoltà ambientali, hanno raggiunto lo scopo riportandone un bel successo personale. Pur con qualche riserva a ritenere la di Sauro, un mezzosoprano, come d’altra parte lei stessa si definisce sui social, le si deve riconoscere che, con una zona centrale calda e rotonda, dà umanità a Serpina, sottraendola al cliché della servetta furba e petulante. Fin da subito si capisce che Uberto verrà catturato e non potrà che esserne felice. Gli acuti sono un poco sfuggenti e il personaggio ne guadagna. Come attrice e dicitrice, quanti recitativi in 50 minuti!, è piacevole e coinvolge il pubblico che le dà segni di apprezzamento. Marco Filippo Romano, una sicurezza per l’opera e per il Regio in particolare, mantiene saldamente una sua specificità che lo collega alla grande tradizione italiana dei bassi-baritoni buffi. Prevale nel suo Uberto la vena seriosa a scapito di quella buffa, c’è poca commedia dell’arte nel suo gioco. Le sfumature non abbondano e il personaggio ne esce monocorde, soprattutto non si trova traccia dell’autoironia che dovrebbe accompagnarlo all’ineluttabile e piacevole congiungimento con l’amabile giovane COLF. Il cantante conferma, con voce timbrata e “in salute”, le felici prestazioni che lo fanno essere, in buona sostanza, un beniamino del pubblico locale che anche in questa circostanza l’ha gratificato di sonori applausi.
Il terzo personaggio Vespone, mimo quasi muto, è ben impersonato da Pietro Pignatelli, che, in sovrappiù, nello stacco tra prima e seconda parte dell’intermezzo, a circa 25 minuti dall’inizio, imbraccia una chitarra e canta, a mo’ di canzone in lingua partenopea, una piacevole aria dello stesso Pergolesi, genio della melodia. La valutazione della prestazione del mimo coincide con quella complessiva della regia di Mariano Bauduin. Nessun incidente in scena, tutto fila liscio senza gli intoppi di qualche idea intelligente o screanzata. Si è pur disperatamente tentato di divertire, nel modo antico della commedia dell’arte, esibendo scopettoni, pitali e bacili schiumanti per un taglio di barba cui Serpina si dedica sillabando “stizzoso, mio stizzoso…”; e qualcuno tra il pubblico ha anche riso. Evitabile il cavalletto con sopra una quasi gigantografia di un San Gennaro dai troppo accesi colori, di cui non si sa se attribuirne l’onta al regista o alla scenografa. La bella e funzionale scena di Claudia Boasso pone, incorniciata in un’intelaiatura lignea, un’ambientazione a pannelli di un salone settecentesco arricchita da un gran paravento ornato di fregi dorati e da un misero lettino, quasi brandina da campo. Le luci di Andrea Anfossi che devono confrontarsi con le sfumature coloristiche dell’incipiente tramonto, trovano un formidabile alleato in una limpida mezzaluna a perpendicolo col centro della scena. Molto belli i costumi di Laura Viglione che richiamano con gusto le tele dei Guardi e dei Longhi.
I pochi elementi dell’orchestra del Regio, impegnati nella serata, il direttore Giulio Laguzzi e Carlo Caputo, maestro al cembalo, hanno sicuramente fatto miracoli per rendere piacevole e divertente la recita, ma già a metà platea, cioè a metà cortile, i bei tempi staccati e la vivacità ritmica erano penalizzati da un’imbarazzante povertà timbrica, annichilita del “vuoto” circostante. Pur dando credito all’abilità e alla sagacia dei tecnici del suono, addetti alla consolle di amplificazione, le difficoltà oggettive dell’ambiente risultano inevitabilmente insuperabili soprattutto quando ci si cimenta con operine di tal fatta che, in tempi più fortunati, avevano come spazio d’elezione il Piccolo Regio. Pur tra le note difficoltà economiche e logistiche, non si può non riconoscere all’apparato organizzativo del Regio, di aver messo su una stagione estiva varia ed interessante, con esiti finora tutt’altro che disprezzabili. Gli applausi finali di un pubblico consistente valgono quindi di soddisfazione per lo spettacolo e per gli artisti ma pure di premio per lo sforzo organizzativo. Ad inizio di serata, Sebastian Schwarz, direttore artistico del Teatro Regio, ha dedicato la recita al regista Graham Vick, improvvisamente stroncato dal virus, e ne ha ricordato le belle regie approdate, negli anni, al Regio.