Drame lyrique in quattro atti, Libretto di Édouard Blau, Paul Milliet e Georges Hartmann, dal romanzo epistolare “I dolori del giovane Werther” di Johann Wolfgang Goethe.
Musica di Jules Massenet
Werther ARTURO CHACÓN CRUZ
Le Bailli SHIGEO ISHINO
Charlotte RACHAEL WILSON
Albert PAWEL KONIK
Sophie AOIFE GIBNEY
Direttore Marc Piollet
Regia Felix Rothenhäuser
Lighting Designer Reinhard Traub
Drammaturgia Franz-Erdmann Meyer-Herder
Stuttgart,11 luglio 2021
Dopo 487 giorni, una pausa di una lunghezza che non si era mai vista neppure durante la seconda guerra mondiale, la Staatsoper Stuttgart è tornata ad ospitare un allestimento d’ opera. Nei giorni precedenti la sovrintendenza ha presentato il programma della stagione 2021/22, che dovrebbe tenersi nella forma consueta, pandemia permettendo. Assistere dopo tanto tempo a una recita d’ opera è una cosa certamente positiva e da festeggiare, ma purtroppo per adesso non si tratta ancora di un ritorno alla normalitá. Infatti questa nuova produzione del Werther di Massenet, che era stata rinviata per due volte a causa della pandemia, è stata allestita con l’ assurdo concetto igienico che è ormai diventato la dannazione dei teatri. Il risultato di questa operazione è stato un vero e proprio travisamento del pezzo presentato. Parlando concretamente, quella che abbiamo visto non era una messinscena ma solo un’ esecuzione concertante. A difesa del lavoro del regista Felix Rothenhäuser, si deve dire che con i criteri di distanziamento non è assolutamente possibile allestire in modo credibile una rappresentazione teatrale. Non c’ era alcuna traccia di regia o di recitazione, in questo allestimento. Su una pedana circolare luminosa che sembrava la pista da ballo di una discoteca di periferia, i cantanti passeggiavano in tondo senza mai avvicinarsi. L’ orchestra era relegata in fondo alla scena e la pedana occupava anche una parte della platea. Con queste premesse, non poteva assolutamente realizzarsi alcun tipo di spettacolo teatrale da cui emergesse una qualche forma di risultato artistico. A tutto questo si aggiungeva una parte musicale mutilata da pesanti tagli, che eliminavano completamente quattro personaggi e una buona mezz’ ora di musica. Omesse erano naturalmente tutte le scene in cui agivano più di due personaggi, distruggendo completamente tutto il meccanismo teatrale del pezzo. Il risultato finale che è stato presentato al pubblico era quindi un’ esecuzione in forma di concerto di un testo abbreviato, non una recita d’ opera come la intendo io. In base a tutto ciò che ho descritto, l’ esecuzione musicale era chiaramente compromessa in partenza. Da questo spettacolo ho inoltre avuto l’ ennesima conferma di una cosa che penso da tanto tempo. Con l’ orchestra seduta distanziata, non è possibile realizzare nessun tipo di interpretazione. Il direttore può solo controllare se tutti suonano insieme, di piú non si può fare perché è semplicemente impossibile. Per questo motivo, non posso esprimere alcun giudizio sulla direzione orchestrale di Marc Piollet, oltretutto pesantemente penalizzata dalla posizione in cui era relegata l’ orchestra, sul fondo della scena. Ne risultava un terribilmente fastidioso squilibrio tra la parte strumentale e le voci, che erano costrette a cantare quasi in mezzo alla platea.Nel cast, le voci femminili hanno offerto una prova decisamente migliore di quelle maschili. Molto buona è apparsa la Charlotte interpretata da Rachel Wilson giovane mezzosoprano statunitense da poco entrata a far parte dell’ ensemble della Staatsoper. La cantante nativa di Las Vegas è un’ interprete sensibile, musicale e molto attenta alle sfumature del testo, e anche la sua pronuncia francese è apparsa molto migliorata rispetto ad altre esibizioni. Il giovane soprano irlandese Aoife Gibney, pur obbligata dalla regia a muoversi perpetuamente in circolo e infagottata in un improbabile tailleur stile Domina, ha esibito un bel colore vocale, fresco e luminoso nella parte di Sophie. Veniamo adesso a parlare delle voci maschili. Nella parte del protagonista, il quarantaquattrenne tenore messicano Arturo Chacón-Cruz ha mostrato una voce naturalmente bella e molto sonora, ma anche una scarsa cognizione dei rudimenti tecnici dell’arte, cantando in modo stentoreo, tutto sul forte-mezzoforte e di gola. Il ruolo di Werther è molto impegnativo per qualsiasi voce, ancora di più per le voci “impiccate” come quella in questione. E per impiccata intendo una voce bloccata e paralizzata nella gola. Ed ecco le conseguenze logiche di tutto ciò: nei momenti più lirici il tenore si è trovato costretto a forzare sempre di più (penso al monologo del secondo atto e alle strofe di Ossian) giungendo in fondo con serie difficoltà; nel registro alto è stato invece costretto a prendere gli acuti forzandoli e spingendo fino all’impossibile, mentre nel registro basso, inevitabilmente, la voce collassava. In sintesi, una caratterizzazione che non è sembrata adeguata alle esigenze di un personaggio che richiede carisma a fantasia di fraseggio. Non posso giudicare il Bailli raffigurato da Shigeo Ishino, perché il ruolo era ridotto al minimo dai pesanti tagli che sono stati apportati alla partitura. Il baritono polacco Paweł Konik, anche lui da poco entrato a far parte dell’ ensemble di Stuttgart, possiede una voce sonora e di buona qualitá. Purtroppo la sua interpretazione travisava completamente il carattere del ruolo di Albert, che veniva trasformato in un geloso aggressivo perennemente arrabbiato, quasi una specie di Compar Alfio francese. Molto corretta la prova del coro di voci bianche della Staatsoper, preparato da Bernhard Moncado. Nonostante questi difetti dello spettacolo gli spettatori, felici di ritrovarsi dopo tanto tempo nella sala amata, alla conclusione hanno comunque applaudito ugualmente a lungo tutti gli interpreti. Purtroppo, per assistere a un’ autentica rappresentazione operistica ci vorrà ancora del tempo. Foto Philip Frowein