Giuseppe Di Stefano(Motta Sant’Anastasia, 24 luglio 1921 – Santa Maria Hoè, 3 marzo 2008). A cento anni dalla nascita.
Un suicidio vocale? Può darsi, a rigor di termini vocalistici. Ma in sede di bilancio artistico e umano di una vita, ha avuto ragione lui: il pubblico ha continuato ad applaudirlo, a delirare per lui anche quando già in zona di passaggio era chiaramente in crisi e si faceva sempre più aleatoria ogni incursione nel registro acuto., quando il ricorso a ripieghi falsettisti divenivano sempre più frequenti. Fascino della spavalderia, della monelleria? O suggestione di un vigore vocale disordinato ma efficace, di una musicalità aggressiva ma potente, di un fraseggio estroso ma eloquente, di un periodare traboccante di slancio e perciò più vibrante? Anche quando l’avventura artistica di Giuseppe Di Stefano è terminata, non si può negare che in ogni caso a questo tenore, amatissimo dal pubblico dei teatri e da quello di dischi, un posto importante nella storia del canto degli anni che vanno dalla fine della guerra ai Sessanta.
Ciò vuol dire che le censure che gli si possono muovere non intaccano minimamente il giudizio di fondo, suffragato da una strepitosa popolarità che non si attenuata. Popolarità che si spiega soltanto con quel rapporto viscerale, immediato che il cantante stabiliva col pubblico per le vie maestre del sentimento e della sincerità. Rapporto saldato da un calore umano ad altissima temperatura: lo stesso calore che Di Stefano profondeva in ogni sua interpretazione e che tanto intensamente quanto rapidamente ha bruciato ogni sua risorsa vocale.
È proprio nell’avere deliberatamente scelto una carriera breve ma viva, veramente piuttosto che una lunga ma blanda, scialba, che Di Stefano rivela l’essenza più profonda del suo carattere di artista istintivo e non calcolatore, generoso e non gretto, spericolato e non guardingo amministratore della sua sola fortuna. La sua grande stagione il popolarissimo “Pippo” La bruciò quasi tutta negli anni ’50 ma ancora oggi si parla ancora del suo timbro prodigioso, delle sue insinuanti mezzevoci, del suo seducente falsetto. Qualcuno rimpiange il suo lunare Nadir, il suo estenuato Werther. Tutti gli appassionati, anche i suoi detrattori, riconoscono l’impronta inconfondibile, incancellabile di una voce fra le più amate del dopoguerra, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti. E questo anche in sede storica, è il giudizio cui “Pippo” ha tenuto di più. Noi, personalmente, quando vogliamo riconciliarci con lui, ascoltiamo il più convinto sincero, dolente “Tu che a Dio spiegasti l’ali” che tenore tutt’altro che romantico abbia mai inciso. (Fine – Estratto da “Giuseppe Di Stefano: cantore popolare per vocazione” di Guido Tartoni, 1972)