Venezia, Teatro La Fenice, Stagione lirica 2020-2021
“FAUST”
Dramma lirico in cinque atti. Libretto di Jules Barbier e Michel Carré, dal poema omonimo di Johann Wolfgang von Goethe.
Musica di Charles Gounod
Doctor Faust IVAN AYON RIVAS
Méphistophélès ALEX ESPOSITO
Marguerite CARMELA REMIGIO
Valentin, un soldato, fratello di Marguerite ARMANDO NOGUERA
Wagner, allievo di Faust WILLIAM CORRÒ
Siébel, amico di Valentin PAOLA GARDINA
Marthe Schwertlein, domestica di Marguerite JULIE MELLOR
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Frédéric Chaslin
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia, scene e costumi Anton Rechi
Light designer Fabio Barettin
Ballerini Giulia Mostacchi, Gianluca D’Aniello
Venezia, 27 giugno 2021
Dopo duecentocinquanta giorni – da ottobre 2020 a giugno 2021 – ritorna uno spettacolo operistico alla Fenice. E questo ritorno ha il senso di una liberazione. La rappresentazione di Faust – non un’opera barocca, come l’Ottone in villa, proposto in una fase complicata come quella precedente, in quanto di più agevole realizzazione, ma un titolo del grande repertorio ottocentesco – assume un ulteriore significato simbolico, se si pensa che, fin dagli anni Venti del Novecento, quest’opera ha segnato la ripresa dell’attività del teatro veneziano dopo un periodo tribolato. Superata la tragedia della Grande Guerra e dell’epidemia spagnola, la Fenice riaprì nel 1920 proprio con il capolavoro di Gounod – anche allora accolto con enorme successo nel mondo intero –, che addirittura, nel 1883, aveva inaugurato il Metropolitan di New York. Anche ora, come in passato, è Faust il titolo, che inaugura la ripresa delle rappresentazioni alla presenza del pubblico nel teatro veneziano. Vi mancava dal 1993.
Non facile era il compito affidato ad Anton Rechi, di mettere in scena – in un momento ancora difficile, in un teatro non ancora tornato alla normalità – un caposaldo del teatro musicale romantico: un grand-opéra con i tradizionali ballabili, le scene d’insieme, le imponenti dimensioni della partitura e quant’altro. Ma, come spesso accade in analoghe circostanze, anche il regista spagnolo ha saputo fare di necessità virtù, sfruttando le nuove opportunità offerte dalla disponibilità di spazi altrimenti riservati al pubblico, coma la platea, che diventa – per tratti decisamente essenziali, come una serie di banchi da chiesa – una gigantesca cattedrale gotica, poi variamente trasformata in sala da ballo dall’abbagliante pavimento a specchio, “atelier” di moda, dove lavora Marguerite, o altro, tramite il semplice spostamento dei banchi stessi. È il luogo principale dell’azione – con la possibilità di avvicinare lo svolgimento del dramma agli spettatori –, che mantiene comunque un proficuo rapporto di complementarità con il palcoscenico. Nella concezione di Rechi vi sarebbe, tra l’altro, una relazione tra il debutto di Faust (1859, anno in cui inizia anche la Seconda guerra d’indipendenza italiana) e il film Senso di Visconti, le cui prime scene si svolgono proprio alla Fenice, tra divise asburgiche e dame in crinolina – alla vigilia però della Terza guerra d’indipendenza (1866). Quel contesto storico, comunque, gli è parso particolarmente adatto per ambientarvi la sua messinscena – che riprende appunto, soprattutto nei costumi, quella del film – , anche se la paura della morte che, a suo avviso, rappresenta l’idea principale su cui si regge il dramma, e il rifiuto del deterioramento fisico, incarnato da Faust, sono temi universali, ben presenti anche nella nostra società, soprattutto nel momento attuale, così segnato dalla morte e dalla malattia. Mattatore dello spettacolo è Méphistophélès, considerato da Rechi “un catalizzatore”, che fa emergere alla luce gli aspetti più reconditi di ciascuno dei personaggi, con diabolica – è il caso di dirlo – freddezza. Si presenta in marsina, cilindro e bastone, muovendosi come un attore di varietà: irresistibile – anche se decisamente estraniante – la serenata “Vous qui faites l’endormie”, in cui sembra evocare Fred Astaire). Rechi guida con efficacia l’azione scenica fra platea e palcoscenico, anche se le soluzioni adottate non sono sempre all’altezza: di grande suggestione la scena della maledizione di Marguerite da parte di Méphistophélès con la fanciulla sola nella platea-cattedrale, meno azzeccata la gag, che vede i soldati, reduci dalla guerra, intonare “Gloire immortelle”, posando in palcoscenico, mentre un incontentabile Siébel – che, dalla platea, vuole ritrarli in una foro-ricordo –, si spazientisce stentando a trovare la giusta inquadratura.
Sul versante musicale, Frédéric Chaslin – dal suo alto podio, nell’angolo destro della buca, in modo da poter controllare, dando le spalle alla barcaccia, sia l’orchestra, che il palcoscenico e la platea – ha dimostrato una particolare sensibilità per gli aspetti timbrici, regalandoci – con la complicità di strumentisti di raffinata sensibilità – sonorità particolarmente brillanti – determinante la sezione degli ottoni – oppure adeguate alle scene più tenebrose, in linea con il satanismo romantico, così come a quelle di più intenso lirismo. All’eleganza della concertazione si coniugava, nella sua concezione direttoriale, la valorizzazione dell’invenzione melodica, in cui Gounod si rivela maestro di equilibrio e ossequio alla tradizione, pur imprimendo sempre la sua cifra distintiva. Esemplare, a questo proposito, il gesto essenziale ma efficace con cui il maestro francese ha guidato i cantanti in alcune tra le melodie più amate da sempre. Quanto alle voci, Ivan Ayon Rivas, nel ruolo del titolo, ha dimostrato di non avere difficoltà nel registro acuto, come si è apprezzato fin da “Salut, demeure”, ma la sua vocalità risulta alquanto acerba, metallica, ancora in fase di maturazione, al pari della sensibilità interpretativa. La sua performance è apparsa, comunque, promettente. Di alto livello è risultata la prova offerta dal collaudatissimo Alex Esposito, nel ruolo di Méphistophélès, che ha dimostrato grande presenza scenica, grazie a una gestualità efficace e disinvolta, ma anche un adeguato accento, un timbro, scuro e penetrante, un fraseggio espressivo – da “Le veau d’or” a “Vous qui faites l’endormie” –, a delineare, con qualche inevitabile elemento caricaturale, l’idea ottocentesca del demoniaco. Eccellente è stata anche la prestazione di Carmela Remigio (Marguerite), che ha brillato dal punto di vista sia vocale che interpretativo, dimostrando di conoscere approfonditamente la parte, che, peraltro, frequenta da tempo: civettuola nell’aria dei gioielli, passionale nel duetto d’amore con Faust, cupamente tragica nella scena della chiesa, infiammata dalla fede nell’apoteosi finale, ha avuto – ci pare – solo qualche fuggevole incertezza nel fraseggio. Il che non ha sminuito per nulla la sua capacità di sedurre il pubblico. Positivo l’apporto di Armando Noguera, quale Valentin, che ha saputo offrire, a livello vocale e gestuale, un personaggio credibile, saldamente ancorato ai propri valori e sentimenti (come in “Avant de quitter ces lieux”). Bene si sono comportati anche Paola Gardina (un Siébel partecipe e sensibile), Julie Mellor (una Marthe adeguatamente caratterizzata) e William Corrò (un macchiettistico Wagner). Irreprensibile il coro istruito dal maestro Moretti. Calorosi applausi per tutti.