Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2020-2021
“L’ELISIR D’AMORE”
Melodramma giocoso in due atti su libretto di Felice Romani, da “Le philtre” di Eugène Scribe.
Musica di Gaetano Donizetti
Adina CLAUDIA MUSCHIO
Nemorino NICO FRANCHINI
Il dottor Dulcamara FRANCESCO AURIEMMA
Belcore ALBERTO BONIFAZIO
Giannetta GABRIELLA INGENITO
Mimo danzatore LUCA ALBERTI
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Direttore Alessandro Cadario
Maestro del Coro Francesco Aliberti
Regia Davide Garattini Raimondi
Scene Lele Luzzati
Costumi Santuzza Calì ripresi da Elena Pirino
Luci Luciano Novelli riprese da Angelo Pittaluga
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 12 giugno 2021
Ripartire, di nuovo, per un teatro come il Carlo Felice di Genova, significa un immane sforzo, ma anche l’occasione per mettere punti fermi, per rifugiarsi in una manciata di produzioni di cui il teatro possa non solo farsi vanto, ma che ne rappresentino chiaramente la precipua vocazione artistica. Prevedibile quanto corretta è allora la scelta di riportare sulla scena (a ventotto anni dal debutto) quell’“Elisir d’amore” cui Lele Luzzati diede delle scene tra le sue più riconoscibili: se quasi trent’anni or sono era di Filippo Crivelli la tradizionale e agrodolce regia, oggi è compito di Davide Garattini Raimondi ridare smalto a una produzione che sembra essere atterrata sul palco genovese da un’altra epoca storica. Le splendide quinte scenografate semovibili luzzatiane, infatti, gettano l’opera in un mondo da teatrino di carta antebellico, oggi diremmo da pop-up book, accentuando non senza manierismo la già ben calcata dimensione fiabesca della vicenda; Garattini Raimondi se la cava con correttezza, cavalcando la pochade, forse senza troppa convinzione: si sorride, ma non si ride – e a poco servono le acrobazie del mimo Luca Alberti (da anni chiamato in questo ruolo) a movimentare il gioco scenico. Ne esce una regia prudente, graziosa, certamente tradizionale, ma che avremmo preferito con un po’ più di carattere. La ripresa che Elena Pirino fa dei costumi storici di Santuzza Calì, ad esempio, ci propone un’Adina impacciata in un paio di outfit davvero datati – mente i costumi maschili sono parsi più centrati; le luci di Luciano Novelli, nella ripresa di Angelo Pittaluga, hanno spesso spinto sugli argini del discutibile, soprattutto nel secondo atto (cambi repentini e scelte coloristiche senza un senso apparente). Per fortuna che le scene di Luzzati hanno saputo ancora una volta catturare l’occhio, più che mettere in evidenza certi azzardi o, al contrario, sottolineare le mancanze di una regia talvolta lasciata all’inventiva del performer. Ciò che invece naturalmente non è stato rapito dalle scene è l’orecchio, che, sia chiaro, è stato per lo più deliziato da questa compagine musicale. La nota più dolente è stata la direzione musicale di Alessandro Cadario, che ha ampiamente dimostrato quanto peggio di sentire Verdi diretto con piglio bandistico, vi sia sentire Donizetti concertato in questa modalità: un eccessivo entusiasmo ha spinto il direttore a una concertazione sicuramente personale, quanto talvolta sopra le righe, spesso soverchiante sulle voci; la forza, ad esempio, che ha impresso alle percussioni avrebbero potuto portare l’ascoltatore a credere di assistere a una replica di “Petruška” più che del più alto esempio di dramma giocoso che il belcanto italiano abbia prodotto. I momenti più lirici sono certo condotti con maggiore misura, fino a un mirabile “Saria possibile?”, ove il coro e Giannetta (interpretata correttamente da Gabriella Ingenito) sotto la bacchetta di Cadario sfoderano la giusta punta di malizia insieme all’entusiasmo trattenuto. Il direttore avrebbe dovuto tenere questa sapienza interpretativa anche nei momenti più brillanti. Peccato, perché la direzione ha penalizzato la prova del buon cast: Claudia Muschio è un’Adina dalla tecnica ben padroneggiata, una voce forse un po’ piccola, brillante nel registro acuto e nelle agilità, dal fraseggio vario. Musicalità camaleontica – come il personaggio richiede – sfoggia il Dulcamara di Francesco Auriemma, dotato di un interessante timbro da basso buffo, che gli conferisce sia autorevolezza che vis comica; ci è parsa meno a fuoco l’interpretazione di Alberto Bonifazio (Belcore), soprattutto nel primo atto, mentre nel secondo mostra una vocalità più presente e una maggiore disinvoltura. Il tenore Nico Franchini (Nemorino) sorprende soprattutto per l’estrema naturalezza dell’emissione e della proiezione, oltre che per il timbro cristallino, che tuttavia mostra pure delle belle ombreggiature (come nella celeberrima “Furtiva lagrima”, interpretata magistralmente) che guardano a una evoluzione in direzione di una vocalità più lirica del cantante. Franchini e la Muschio formano pure una gradevolissima coppia scenica e dobbiamo alle loro mimiche e ai loro ritmi (oltre che all’adorabile truffaldino Dulcamara) i momenti più godibili dello spettacolo. Buona, infine, anche la prova del Coro diretto dal Maestro Francesco Aliberti, anche se, va detto, le mascherine che ne “imbavagliano” gli artisti limitano notevolmente la scansione delle parole. Certo, accontentiamoci! Conoscendo le magnifiche rese che la formazione genovese sa dare, non si può che aspettare frementi il momento in cui tutto potrà tornare davvero alla normalità.