Vienna, Staatsoper, stagione lirica 2020/21
“PARSIFAL”
Dramma sacro in tre atti di Richard Wagner dall’omonimo romanzo cavalleresco di Wolfram von Eschenbach
Musica di Richard Wagner
Parsifal JONAS KAUFMANN
Gurnemanz GEORG ZEPPENFELD
Amfortas LUDOVIC TÉZIER
Kundry ELĪNA GARANČA
Klingsor WOLFGANG KOCH
Titurel STEFAN CERNY
Zwei Gralsritter CARLOS OSUNA, ERIK VAN HEYNINGEN
Vier Knappen PATRICIA NOLZ, STEPHANIE MAITLAND, DANIEL JENZ, ANGELO POLLAK
Blumenmaedchen ILEANA TONCA, ANNA NEKHAMES, AURORA MARTHENS, SLAVKA ZÁMEČNÍKOVÁ, ISABEL SIGNORET, JOHANNA KEDZIOR
Parsifal giovane NIKOLAY SIDORENKO
Wiener Philarmoniker e Wiener Staatsoper Chor
Direttore Philippe Jordan
Maestro del coro Thomas Lang
Regia, scene, costumi Kirill Serebrennikov
Luci Franck Evin
Foto e video design Aleksey Fokin, Yurii Karih
Vienna, 27 aprile 2021 (diretta streaming)
Nuova produzione di “Parsifal” all’Opera di Vienna allestita facendo ricorso alle migliori energie in campo. Sforzo che, almeno per la parte musicale, è stato ampiamente ricompensato da una qualità musicale alta destinata a imprimere questa produzione nella storia esecutiva dell’opera.
Philippe Jordan si pone come erede di una tradizione francese che ha letto la partitura wagneriana che ha avuto il suo archetipo nella concertazione di Pierre Boulez. Un taglio interpretativo antiretorico fatto di sonorità nitidamente analitiche, di ritmi particolarmente serrati e di una drammaticità nervosa. Jordan fa suo questo taglio, unendo un gusto per colori perlacei, per un cromatismo cangiante, se pur un po’ algido, dai toni invernali in perfetta sintonia con alcune scelte registiche (che analizzeremo in seguito). Quella di Jordan è una visione profondamente antieroica, che fa emergere un senso di profonda e dolorosa solitudine umana, una sofferenza irrisolta che rimane nonostante l’apparente disgelo finale. I Wiener Philharmoniker, ovviamente, suonano meravigliosamente – quale serica morbidezza sanno esprime gli archi ! Quale nitore gli ottoni! – linee orchestrali non potrebbero essere evidenziate con maggior chiarezza, ma anche così dolorosamente tese, in perfetto connubio con il direttore.
Il cast vocale è forse quanto di meglio si possa immaginare, tra specialisti assoluti e debuttanti di lusso capaci di fugare gli eventuali dubbi al loro riguardo. Pochi ruoli risultano così congeniali a Jonas Kaufmann quanto quello di Parsifal. La tessitura centrale gli si adatta come un guanto. Con gli anni la voce ha perso un po’ la luminosità, ma ha acquistato in profondità e ricchezza interpretativa. Il suo Parsifal è già da subito segnato da un nucleo doloroso che si farà via via sempre più consapevole. La voce è ricca di armonici, il colore, molto personale, non privo di suggestione, l’emissione non certo ortodossa, più evidente nell’opera italiana, qui diventa anch’essa strumento espressivo. Kaufmann si è ormai innegabilmente ricavato un proprio spazio tra gli interpreti destinati a rimanere nella storia interpretativa del “puro folle”.
Georg Zeppenfeld è uno splendido Gurnemanz. A colpire è prima di tutto il dato prettamente vocale, un’emissione pulita e nitida, un timbro chiaro, molto bello e un’assoluta omogeneità di emissione. Il fraseggio è vario ed articolato, umanissimo nella sua mutevolezza, molto moderno e fortunatamente lontano dai toni fin troppo compassati da vecchio saggio cui spesso è concepito il ruolo.
“Debuttanti” di lusso: Ludovic Tézier (Amfortas) ed Elīna Garanča (Kundry). Tézier tratteggia un re di fortissimo impatto. Vocalmente emerge qualche forzatura, ma non compromette una prestazione complessivamente di altissima qualità. La voce è molto bella come colore, la linea di canto ha tutta la morbidezza e la qualità della migliore scuola italiana. Sul piano espressivo opta per una lettura molto estroversa, di una drammaticità violenta. Lontana dal macerato intimismo più tradizionale, Tézier affronta il canto con ferina irruenza, esprime con inesausta energia il dolore e il tormento del Re pescatore.
La Garanča è artista di grande levatura. La qualità del canto è ineccepibile, la tessitura si mostra pienamente congeniale e la parte è retta con una sicurezza che non ci saremmo aspettati. La Garanča lavora sulla precisione del fraseggio, cura l’accento nei minimi dettagli, coglie ogni sfumatura, in una lettura atta a far prevalere lo sviluppo intimo del personaggio. Le frasi aspre, sprezzanti rivolte ai cavalieri nel I atto sembrano uscire da un animale ferito, tradiscono una fragilità che l’esibita sicurezza dei modi non riesce a nascondere e che emergerà sempre più fino alla dolcezza dei gesti del finale. La Garanča è infatti anche splendida attrice: sguardi, movimenti, non c’è un dettaglio che non accompagni lo sviluppo del personaggio.
Wolfgang Koch è alquanto sgraziato, fortunatamente per un ruolo come Klingsor questo è concesso. Ileana Tonca gorgheggia sicura e radiosa come prima fanciulla fiore, solido il Titurel di Stefan Cerny e semplicemente impeccabili tutti i comprimari.Resta la regia di Kirill Serebrennikov, regista russo autore di uno spettacolo estremo, destinato a dividere in modo inscindibile tra entusiasti e ipercritici ma al quale va riconosciuta una coerenza interna e una cura ai dettagli innegabile.Il regista ambienta la vicenda in una colonia penale che pur senza riferimenti precisi richiama chiaramente alla realtà russa. Un video ci mostra un carcere isolato, tra foreste ricoperte di neve, dominato dalle rovine di una chiesa ortodossa barocca. I cavalieri sono i detenuti, Amfortas è uno di questi, ferito da una guardia e da allora lacerato da pulsioni autolesionistiche e suicide, Gurnemanz il più vecchio dei detenuti, un saggio tatuatore che garantisce l’ordine nel carcere; Kundry una fotografa al servizio di Klingsor – ex secondino e ora editore – che nasconde un coacervo di fragilità irrisolte dietro l’ostentata sicurezza di una donna in carriera. Parsifal appare come un corpo estraneo, una figura al limite di questi mondi, sdoppiata tra il cantante, quasi al margine, e un giovane attore che lo interpreta interagendo maggiormente con gli altri personaggi. Il Graal è semplicemente l’anelito alla libertà che nel finale si compie con modalità da “Fidelio” post-moderno.
Molti elementi richiamano alla realtà russa da cui il regista proviene, si pensi ai tatuaggi, aspetto fortemente identitario del mondo carcerario russo, fin da epoca zarista e che nel periodo sovietico ha assunto spesso simbologie religiose come forma di contestazione all’ateismo bolscevico. Serebrennikov ricorre a questi ultimi per recuperare la simbologia sacrale dell’opera. Gurnemanz è raffigurato come un tatuatore proprio per il grande prestigio di queste figure in quel contesto. Il tema religioso ritorna con forza nel III atto. Le detenute – tra cui ora si trova anche Kundry – realizzano croci, si immagina, per le celebrazioni pasquali. La parte recitata è integrata da quella proiettata che ne rappresenta un necessario completamento e che che si caratterizza per scelte visive molto forti (come il cigno ucciso nel I atto trasformato in un detenuto sgozzato con una lametta).
La recitazione è curatissima. Resta la visione di insieme che può non convincere e sembrare imposta a forza sulla drammaturgia dell’opera venendo apertamente a stridere con essa. Questo mondo freddo e grigio contrasta con la festosa esplosione della Natura che la musica dell’”Incantesimo del venerdì santo” evoca così pienamente rivestendo di una patina cristiana il sacro aprile di Venere e Flora.
Uno spettacolo destinato a lasciare un segno, forse l’unico, tra gli spettacoli visti in questi mesi di streaming forzato, ad avere la possibilità di restare nella memoria per caratteristiche proprie a prescindere dal contesto in cui è nato.
Qui dove vedere l’opera