Venezia, Teatro La Fenice: Stagione Sinfonica 2020-2021
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore e pianoforte Alexander Lonquich
Wolfgang Amadeus Mozart: Concerto per pianoforte e orchestra n. 17 in sol maggiore KV 453
Franz Schubert: Sinfonia n. 8 in do maggiore D 944 Grande
Venezia, 22 maggio 2021
Nel 1781 Mozart si stabilì a Vienna nell’intento di affermarsi come compositore in un ambito – quello operistico – dominato dagli italiani. Ma nei primi anni viennesi incontrò non poche difficoltà a questo riguardo, riuscendo a mantenersi solo grazie alla sua abilità di pianista, nonché di compositore e maestro di pianoforte. Il Concerto n. 17 in sol maggiore KV 453 fa parte del gruppo dei quattordici Concerti per pianoforte e orchestra, composti da Mozart tra il 1782 e il 1786 nella vivace temperie culturale della capitale asburgica. Durante questo periodo di esordio il Salisburghese – parallelamente alla composizione dei Quartetti dedicati a Haydn, che rappresentano uno dei punti culminanti del suo genio in campo cameristico – si impegnò nello sforzo di rinnovare le possibilità espressive di questo genere concertistico, in base a una concezione sinfonica dell’insieme e a una più ampia gamma di possibilità, offerta dalla forma-sonata. L’autografo del Concerto KV 453, datato 12 aprile 1784, è dedicato, come il precedente K 449, alla pianista viennese Barbara von Ployer, che lo tenne a battesimo nella casa di campagna di Döbling, durante un trattenimento musicale in onore di Giovanni Paisiello, dal quale – in procinto di partire per Napoli per assumervi un incarico a corte – intendeva farsi raccomandare presso la regina Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV e figlia della defunta Maria Teresa d’Austria, nel tentativo di inserirsi nella capitale borbonica, allora tra i centri più attivi in Europa nella produzione di melodrammi. Ma, anche questa volta, per motivi contingenti, il progetto non si realizzerà.
Non pochi sono gli aspetti innovativi del Concerto K 453. Il primo tempo – in forma-sonata – presenta delle caratteristiche decisamente originali, come la doppia esposizione dei due temi principali prima affidati all’orchestra e poi ripresi dal solista, una tecnica ricorrente nel Concerto mozartiano. Il solista, inoltre, espone, tra i due precedenti, un terzo tema, dimostrando, tra l’altro, anche la capacità di avventurarsi in modulazioni verso tonalità lontane. Anche l’Andante – in forma di variazione libera – presenta audaci modulazioni, iniziando con un’idea, affidata all’orchestra, dai toni sommessi e quasi esitanti, che ritorna nei punti cruciali del movimento, e proseguendo con un secondo elemento tematico ai legni e quindi con un lungo episodio in minore del pianoforte, dove anche il minimo virtuosismo cede totalmente alle istanze dell’espressione e della forma. Chiude la composizione un movimento insolitamente in forma di rondò con variazioni (Allegretto), che culmina in una travolgente stretta (Finale: Presto) di sicuro effetto, che richiama certi finali d’opera buffa.
Ragguardevole è risultata la prova offerta da Alexander Lonquich nell’affrontare – in qualità di solista e direttore – questo concerto mozartiano: leggerezza, sobrietà, finezza interpretativa si sono apprezzate sia nella parte pianistica, dal contenuto virtuosismo, ma dall’intensa espressività – dove, tra l’altro, si è apprezzata la nitidezza del tocco anche nei passaggi veloci –, sia nel mettere in valore, insieme a un’orchestra “di solisti”, la preziosa scrittura strumentale, in cui i legni assumono un notevole rilievo, nel loro continuo dialogo con il pianoforte, che qui assume un ruolo concertante, risultando primus inter pares. Il tutto ha reso l’esecuzione particolarmente affascinante, anche dal punto di vista timbrico, immergendo gli ascoltatori in quell’aura di dolce intimità, che nasce dal tono languidamente colloquiale del discorso musicale, con il suo frequente ricorso al modo minore.
Quanto alla Sinfonia n. 8 in do maggiore “Grande” (1825-28), è ormai accertato che una prima stesura dell’ultimo lavoro sinfonico firmato da Schubert coincide con la Sinfonia di Gmunden-Gastein – così denominata, perché ivi composta nel giugno-settembre 1825 –, che fu ritenuta erroneamente per molto tempo un lavoro a se stante, di cui si pensava non fosse rimasta praticamente alcuna traccia. La “Grande” – prima del ritrovamento dell’“Incompiuta” – era contrassegnata dal numero sette nel catalogo del sommo musicista austriaco; ora giustamente è contraddistinta dal numero successivo. Essa costituisce l’apice della produzione sinfonica di Schubert: la sua scoperta si deve a Schumann. Dopo aver ultimato questa sinfonia, nel marzo 1828, l’autore l’aveva presentata alla Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna, ma si vide rifiutare il lavoro, in quanto ritenuto troppo lungo e difficile. Pochi mesi sarebbe moto, lasciando la partitura tra i suoi manoscritti. Dieci anni dopo Schumann, recatosi a Vienna, ritrovò il manoscritto della sinfonia in casa del fratello di Schubert; lo portò in Germania e il 21 marzo 1839 al Gewandhaus di Lipsia la “Grande” ebbe la sua prima esecuzione sotto la direzione di Mendelssohn. Nella sua recensione sulla Neue Zeitschrift für Musik, Schumann si lancia in un’entusiastica lode dell’opera schubertiana, sottolineandone, tra l’altro, la “magistrale tecnica compositiva”, la “ vita” presente “in ogni fibra”, il particolare “colorito che arriva alle sfumature più sottili”, il diffuso “romanticismo”, oltre alla stessa “divina lunghezza”. Schubert è essenzialmente un lirico, ma in questo monumentale lavoro la sua vena melodica si coniuga ad un nuovo, spiccato senso della forma, come attesta la sua solida struttura, costituita dalla giustapposizione di “pannelli” ben distinti, seguendo una logica basata sulla paratassi e l’iterazione, che – unitamente all’ampliamento dell’organico e delle dimensioni – anticipa Bruckner. Siamo di fronte a un modo di comporre per molti versi antitetico a quello beethoveniano, basato su un rigoroso sviluppo del materiale musicale e su un’accentuata tensione dialettica a livello tematico. In Schubert tale contrapposizione si attenua, mentre si assiste a una ripetizione articolata dei vari temi: l’unità della partitura è comunque assicurata da relazioni sotterranee – o, se si vuole, di tipo analogico –, oltre che dall’impulso ritmico, che la percorre interamente. Nondimeno il richiamo, nell’ultimo movimento della sinfonia, ad un frammento dell’Inno alla Gioia costituisce un esplicito omaggio a Beethoven.
Analogamente carica di seduzione è stata l’interpretazione di questa sinfonia da parte del direttore tedesco – vincitore, nel 1977, del Concorso Pianistico Internazionale “Alessandro Casagrande”, dedicato a Schubert – dando prova di grande equilibrio nel valorizzare mirabilmente i diversi aspetti di questa partitura, che si distingue per la solida architettura formale, lo slancio ritmico, la grazia melodica: cifre distintive del maestro viennese. Determinante, anche in questo caso, è stata la prestazione dell’orchestra, in ogni sua sezione e nell’insieme, che ha affrontato brillantemente i diversi movimenti, in cui si articola il capolavoro schubertiano: il primo movimento, diviso tra l’introduzione, Andante – aperta dai corni, che espongono il tema iniziale, riproposto poi in soluzioni espressive diverse – e il successivo Allegro ma non troppo, dove si colgono tre blocchi tematici, ritmicamente incisivi – rispettivamente ai bassi, ai legni e ai tromboni –, tutti riconducibili al tema dell’introduzione; il secondo movimento, Andante con moto, in forma di Lied, con l’iniziale figura ritmata dell’oboe, che non conosce sviluppi, ma si ripete più volte nelle sue magistrali varianti; lo Scherzo brillante e serrato, cui si contrappone un Trio dal carattere di Ländler popolare; il colossale Finale: Allegro vivace, in forma-sonata, aperto dai richiami degli ottoni, cui rispondono gli archi, dove il ritmo si coniuga mirabilmente alla melodia. Grande successo con applausi ed acclamazioni.