Mariano Stabile (Palermo, 12 maggio 1888 – Milano, 11 gennaio 1968)
Il Falstaff verdiano non è certo un’opera dove occorrano grandi “macchinismi” scenici: non ci sono crolli, incendi, apparizioni magiche; ma insomma un “trucco” ci vuole. Alla fine del secondo atto quando Falstaff, la famosa scena della cesta. Il vanaglorioso protagonista è stato nascosto nella gran cesta del bucato sporco per essere quindi rovesciato nel sottostante Tamigi. E qui sorge il problema scenico: non è possibile gettare davvero dal praticabile che forma la finestra, anche il baritono interprete della parte. Perciò in tutti i teatri si pone la cesta (in genere aperta da un lato) in un punto del palcoscenico che permetta, al termine delle poche battute del concertato con cui Verdi stesso si impietosisce sulla sorte di Sir John, la cesta viene chiuso definitivamente, in attesa di essere rovesciata dalla finestra; intanto però il baritono sguscia via da quel passaggio e se ne va tranquillo. Ma nel 1918 al Teatro Municipale di Rio de Janeiro, il palcoscenico non aveva aperture né passaggi. Lo sfortunato Falstaff (il celebre baritono Giacomo Rimini) aveva dovuto accettare di essere gettato davvero, con la cesta, dalla finestra! Stanco e sudato, gravato dal peso di quella pancia artificiale, aveva subito anche l’estremo “oltraggio”. Issato dentro il cestone sulle spalle dei servi Alice, era stato capitombolato dalla finestra: e poco importa che, al di là gli avessero predisposto uno scivolo per rendere meno dura la caduta. L’interprete del ruolo di Ford avevo detto al collega: “Non capirò mai perché hai accettato di cantare una parte come questa; una parte che oltre ad essere di poca soddisfazione musicalmente, comporta fatiche così terribili. Non canterei fare sta per tutto l’oro del mondo!”.
Quel secondo baritono, quel Ford, si chiamava Mariano Stabile. In seguito avrebbe cantato la parte di Falstaff appena 1200 volte, in tutto il mondo: 90 solo alla Scala. Ma il numero delle recite dice solo in parte, e freddamente, che cosa è stato l’incontro fra Stabile e questo personaggio verdiano. In realtà si verificò, fra il protagonista dell’ultima creazione di Verdi e il giovane ma già affermato baritono siciliano un caso di quella perfetta simbiosi fra la vita e l’arte che innalza l’interpretazione ad emblema. Falstaff è calato dal cielo verdiano in palcoscenico, e si è chiamato Mariano Stabile. Forse la repugnanza stessa che il giovane cantante sentiva prima per “l’immenso sir John” stava ad indicare una predestinazione? Freud avrebbe qualcosa da dire in proposito. Certo, però, perché il “miracolo” si verificasse, occorreva l’intervento d’un taumaturgo. Ed egli intervenne infatti: Arturo Toscanini.
Era il 1920. Mariano Stabile, che aveva compiuto gli studi di canto con un maestro severo e “artista” come Antonio Cotogni (ero uno che solleva dire: “occorrerebbero due vite: una per studiare, una per cantare “), da quando aveva esordito nella Bohème come Marcello aveva percorso la sua bella parte di carriera, specie commentare pezzi di personaggi fortemente drammatici: Scarpia, Rance, Barnaba. Aveva da poco superato i trent’anni, ora; la guerra era finita, le scritture non mancavano. Un giorno, in galleria a Milano, si imbatte in Ferruccio Calusio, compositore direttore d’orchestra, che (ma Stabile non lo sapeva) in quel momento faceva parte, come sostituto, dello staff che Toscanini aveva radunato attorno a sé, alla Scala, predisponendo sia riaprire il teatro per il dicembre del 1921, nella gestione costituito ente autonomo. Calusio dice: “Giusto tu: vuoi imparare la parte di Falstaff per cantarla in un teatro di provincia? C’è un mio amico impresario che cerca un nuovo Falstaff”. Stabile risponde di no: il ricordo di Rio lo terrorizza ancora. Ma poi Caluso si fa più insistente, e promette di insegnargli personalmente non la parte intera ma un paio di pezzi, tanto per provare, e insomma tanto dice tanto fa, che Stabile accetta e a casa di Calusio incomincia a mettersi in mente e in gola, il “monologo dell’onore” e l’altro del terzo atto, lo sconsolato “Mondo ladro”.
E, dopo un po’, capisce una cosa, lo riafferma ancora oggi, ricordando: “Capii che il personaggio di Falstaff non era un personaggio buffo, ridicolo: era un personaggio drammatico, protagonista da tragedia. Impersonava la condizione tragica dell’uomo giunto alla fine della vita con l’anima ancora gonfia di aspirazioni: lui, beffato e sconfitto eppure l’unico” signore “, l’unico aristocratico e l’unico poeta, in un mondo di “mercanti” e di “mercantesse”… “. Falstaff, insomma, comincia a piacergli. Tant’è vero che, all’insaputa di Calusio, si mette studiare per conto suo tutta la parte. Ogni tanto domanda: “Dov’è questo famoso impresario? Quando facciamo l’audizione?”. L’impresario non c’è. Calusio si è inventato tutto. C’è Toscanini, che ha deciso di inaugurare la Scala con Falstaff, ma che non sa chi scegliere come protagonista. Vuole un baritono di voce “chiara “, tenoreggiante, proprio perché vuol dare una nuova (e più autentica) versione interpretativa del personaggio: Falstaff “baritono”, perché è giunto alla sera della sua vita, perché “impingua troppo”, perché ha “dei peli grigi “; ma ” tenoreggiante” perché è ancora un poeta, capace di cantare madrigali per amore. Calusio ha proposto di “provare” un giovane nella parte. Toscanini autorizzato la prova, a patto che non sappia che chi cerca un nuovo Falstaff è lui. E insomma, le prove di Stabile con Calusio proseguono a lungo, finché il maestro non si decide a buttar fuori quel nome “terribile”. Accompagna Stabile alla Scala e dice: “Sai, chi ti vuole sentire è Toscanini”. (Fine prima parte – estratto da “Il Falstaff di Toscanini” di Teodoro Celli, Milano, 1968)