Birgit Nilsson (1918 – 2005): “Un’Isotta che mungeva le mucche”

Birgit Nilsson, (pseudonimo di Birgit Märta Svensson, Västra Karup, 17 maggio 1918 – Bjärlöv, 25 dicembre 2005)
C’è una cantante,  che pure è una grandissima artista, che non ricorda affatto l’immagine stereotipata del soprano: è la svedese Birgit Nilsson, alta, vigorosa, con grandi occhi cerulei, male con i con i capelli castani, che sa parlare con calma, misurando le parole, con dolcezza mai affettata e tuttavia con un fascino che tanto più si fa evidente, quanto più sembra contrastare con quelle meravigliose immagini che la memoria ci riporta delle sue apparizioni sui palcoscenici di tutto il mondo, con quella sua voce alta e intensa, di un colore inconfondibile.
In chiesa
Sono un po’ anche i miracoli del teatro, diciamo la verità. Se non sapessimo che Birgit Nilsson è  la strepitosa Brunnhilde che conosciamo (ma anche Leonora, Aida, Turandot, Agathe del Freischutz) sicuramente, incontrandola su un aereo o in qualche grande albergo internazionale, potremmo scambiarla per una agiata turista scandinava, di quelle che una volta l’anno si muovono in cerca del sole, con tutti gli agi possibili, e vanno ad ascoltare gli spettacoli d’opera alle Terme di Caracalla e chiedono il “bis” ai cavalli, alla fine della marcia trionfale di Aida. E difatti la Nilsson, quella che oggi ha preso il posto della grande Flagstad, avrebbe potuto essere – lo dice lei stessa – chissà quale dirigente di azienda agricola, se la passione per il canto e la sua straordinaria voce non le avessero fatto rompere una tradizione familiare di fedeltà la terra, all’allevamento del bestiame e alla cura dei boschi.
Nata a Karup, in una zona agricola della Svezia, fu battezzata con i nomi di Märta e Birgit: i suoi erano contadini da sette generazioni e suo padre era conosciuto come un agricoltore eccellente. E il fatto che fosse figlia unica fece sì che non fosse esonerata dai lavori agricoli, mentre il padre faceva chissà quali progetti su questa figlia dirigente vigorosa, capace di mettere in moto un trattore e di aiutare nella mungitura. Nulla insomma, nella prima gioventù di Birgit Nilsson, che la invogliare asse a fare la cantante: cantava nelle cerimonie in  chiesa, questo si, e tanto bene che una volta fu notata –  si dice – dal vecchio re Gustavo V, che era andato a visitare la fattoria del padre di Birgit. Quando la giovane Nilsson chiese di essere mandata a studiare il canto trovò invece L’opposizione dei genitori.  Ma siccome tutti le dicevano di questa sua bella voce, che sarebbe stato un peccato segregare nelle funzioni domenicali della parrocchia di Borstad, con la complicità della madre riuscì finalmente ad iscriversi all’Accademia di musica di Stoccolma. E qui  restò a studiare per cinque anni, con molta diligenza, e alla fine risulta vincitrice di un concorso per giovani cantanti.
Ormai anche suo padre si era dato pace: e poi tutti ormai gli parlavano di questa “figliolona” dalla voce flessibile come l’acciaio, con una estensione fenomenale (per l’esattezza, secondo quanto la Nilsson dichiarò in un’intervista, oggi le sue possibilità vanno dal “Fa” sotto il rigo al “Re” bemolle sovracuto: ma si tratta di limiti, diciamo così, di sicurezza, perché in realtà estensione della Nilisson è ancora maggiore),  che cominciava a richiamare l’attenzione dei sovrintendenti dei maggiori teatri. L’esordio di Birgit in un’opera  in una parte di grande impegno avvenne nel 1948, nel Macbeth di Verdi: ed era di per sé un fatto molto coraggioso il debutto in questa parte, difficilissima e in certo modo quasi isolata nella vocalità di Verdi. Macbeth poteva essere il segno della sua futura grandezza e anche dei possibili limiti dei suoi mezzi vocali; ma la Nilsson era ormai sicura di sé, anche se per niente insuperbita dai suoi primi successi. (…)

Nel gennaio del 1951 La giovane cantante svedese venne per la prima volta in Italia, a Firenze. Era stata adocchiata, chissà per quali misteriose vie, da Francesco Siciliani, che la fece cantare nel Don Giovanni, e fu un avvenimento che è restato ad onore del “Maggio” di quegli anni: e tornò a Firenze ancora, prima di essere chiamata alla Scala di Milano dove inaugurò in uno spettacolo memorabile, al fianco del tenore Giuseppe Di Stefano, la stagione 1958-59 con la Turandot. E così, dal suo primo debutto come Agathe nel 1946, la Nilsson aveva mostrato di potersi cimentare con autorità nelle opere del primo romanticismo tedesco e nel repertorio wagneriano, nella Turandot ma anche nella Tosca, nel Ballo in maschera ma anche nell’Aida. E già cominciava quei  suoi concerti di Lieder che hanno fatto nascere immediatamente il paragone con la Flagstad.
Una funzionaria
Giustamente, se oggi data la bellezza delle sue interpretazioni di tutte le opere di Wagner qualcuno le dice di considerarla una “voce wagneriana”, un po’ si adonta; soprattutto se avverte in questa qualificazione un limite dei suoi mezzi vocali. Se la sua Isotta è davvero indimenticabile per ricchezza di accenti espressivi e per bellezze di mezzi, non minore è anche la sua penetrazione drammatica del personaggio di Turandot, tutto risolto nella voce tesa e vibrante, con cui con quel tanto di enigmatico che sembra accentuarsi a contatto col suo gestire asciutto e privo di sensualità. Insomma, come scrisse Eugenio Montale tanti anni fa, al tempo delle prime apparizioni della Nilsson alla Scala, finalmente una cantante priva di stravaganze e anche senza atteggiamenti sacerdotali: anzi, una “funzionaria piena di zelo, efficiente,  onestissima” del melodramma internazionale. Il che significa riconoscere alla Nilsson tutte quelle qualità di intelligenza che l’hanno resa, pur accanto ad altre illustri colleghe, una figura di interprete e non soltanto una “voce”, per eccezionale che essa sia. E finalmente una cantante che sa dire, con attraente semplicità, di essere al servizio della musica. La definì benissimo Eugenio Gara: “Ecco, decisamente,  una grande artista incapace di montarsi la testa e di creare una leggenda di se stessa. E questo non sembra neppure un merito di lei, ma una seconda natura, un infallibile senso del limite. Dopo tutto lei dice, le musiche che canto non le ho scritte io”.
(estratto da “Un’Isotta che mungeva le mucche” di Leonardo Pinzauti, 1968)