Roma, Teatro dell’Opera: “La Traviata”

Roma, Opera di Roma, stagione lirica 2021
“LA TRAVIATA”
Melodramma lirico in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave da “La Dame aux camélias” di Alexandre Dumas figlio
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry LISETTE OROPESA
Flora Bervoix ANASTASIA BALDYREVA
Annina ANGELA SCHISANO
Alfredo Germont SAIMIR PIRGU
Giorgio Germont ROBERTO FRONTALI
Gastone Visconte di Létorières RODRIGO ORTIZ
Il Barone Douphol ROBERTO ACCURSO
Il Marchese d’Obigny ARTURO ESPINOSA
Il Dottor Grenvil ANDRII GANCHUK
Un commissario FRANCESCO LUCCIONI
Un domestico di Flora LEO PAUL CHIAROT
Giuseppe MICHAEL ALFONSI
Orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia e scene Mario Martone
Costumi Anna Biagiotti
Roma, dal 09 aprile 2021 – trasmissione televisiva e streaming in visione su RaiPlay
Si dice che “Le ciambelle non sempre vengono con il buco”, così un  maggior impegno di risorse non sempre ottiene i risultati sperati. La versione cine-televisiva de “La traviata” realizzata dall’Opera di Roma in collaborazione con la RAI lo dimostra. Il “miracolo” del  “Barbiere di Siviglia” qui non si è ripetuto. Questa Traviata mostra più ombre che luci, nonostante la presenza di spunti indubbiamente interessanti.
Lascia perplessi la concertazione di Daniele Gatti. Il maestro milanese ha una sua precisa visione dell’opera – e di questo gli va dato atto – a suo modo mostra una rigorosa fedeltà allo spartito. Il problema è che questa concezione sembra “calata dall’alto” e “imposta” senza mediazione. L’agogica molto marcata così come la ricerca di contrasti molto evidenti ha una sua ragion d’essere ma in diversi momenti la ritmica troppo sostenuti sembrava cozzare con le necessità dei cantanti in ambito di tenuta del canto  e di fraseggio. Una lettura se vogliamo “sinfonica”, dagli accordi talvolta plumbei (quelli che chiudono il coro dei mattatori) e poco attenta al rapporto tra le parti che è fondamentale per la piena riuscita di uno spettacolo lirico. Si è avuta questa sensazione all’ascolto,  risultando (peccato mortale nel melodramma e più che mai in Verdi) così scarsamente teatrale,  oltre “fredda” sul piano emotivo (difficile immaginare un “Amami Alfredo” più algido e meno coinvolgente di quello qui sentito).
Una concertazione che ha creato al cast più difficoltà di quante ne risolva, soprattutto quando non vi è omogeneità di resa vocale. La Violetta di Lisette Oropesa è sfuggente, difficile da definire. La qualità della cantante americana sono notevoli. Ovviamente il primo atto è risolto in un profluvio di note impeccabili ma con il prosieguo della vicenda la mancanza “peso vocale” si è fatta palese. La Oropesa è ottima attrice, interprete attenta e sensibile, compensa più che può – e la direzione, a riguardo, non l’ha di certo aiutata – facendole trovare un fraseggio e accenti, quando è assente nella natura vocale. Il canto resta qualitativamente ammirevole. Bello il cesellato lirismo di “Addio del passato”, manca però quella verità espressiva senza la quale non può esserci una Violetta compiuta.
Purtroppo ci è parso debole l’Alfredo di Saimir Pirgu. La linea di canto è priva di una linea di canto omogena, inficiata di portamenti e l’interprete è generico, senza un autentico slancio, superficiale.
Per fortuna entra in scena Roberto Frontali, inizia a  cantare e troviamo la magia del canto verdiano. La voce avrà perso in brillantezza ma resta robusta, ricca, piena di suono e sorretta da una tecnica esemplare. Frontali è soprattutto un vero artista, il solo ad avere ben presente il valore teatrale della parola verdiana e ad avere un’idea forte e  compiuta del  personaggio. Ecco dunque un  Germont gelido, spietato mascherato dalla  bonomia borghese. Veterana del ruolo Anastasia Boldyreva è una Flora pienamente centrata sia vocalmente che scenicamente. Tra i comprimari di distingue la bella qualità vocale di Angela Schisano (Annina) mentre gli altri non si elevano da un’onesta prova di mestiere.
Mario Martone torna all’idea di fondo già vista nel “Barbiere di Siviglia”, l’uso del teatro come spazio scenico complessivo e come mezzo per denunciare l’assordante silenzio delle istituzioni sul futuro della vita culturale italiana. Martone è un grande regista, sa fondere teatro e cinema, sa usare gli spazi in modo esemplare ma rispetto al precedente spettacolo qualcosa mancava. Mancava la freschezza, l’originalità, tutto sapeva un po’ troppo di maniera, magari raffinata e impeccabile ma pur sempre maniera.
L’ambientazione è tradizionale – con i bei  costumi d’epoca di Anna Biagiotti – con un giusto tocco di “volgarità” di un demi-monde alquanto equivoco. La regia punta molto sul simbolismo con momenti di grande effetto, come il grido d’amore per il teatro in cui è trasformato il finale, ma altrove il gioco sembrava troppo studiato. Il teatro nel teatro talvolta risultava stridere con le ragioni schiette della teatralità verdiana,  distraendo inutilmente dal nucleo drammatico (il continuo muoversi delle macchine sceniche durante il duetto del II atto), così come certe soluzioni risultavano fin troppo scontate per un regista come Martone: i filmati pensati in un’ottica televisiva nulla aggiungevano, rimanendo una mera trovata fine a se stessa.
In sintesi, questa Traviata, se pur curata, non ha saputo trovare l’equilibrio realizzato nel “Barbiere di Siviglia”. Negli ultimi mesi si sono visti molti spettacoli che, con differenti livelli qualitativi, si sono basati sulla medesima idea di fondo, che si è così inflazionata, anche se bisogna riconoscere che,  tra tutti,  quello di Martone si distingue per la cura dei dettagli e l’uso magistrale degli spazi cosa altrove non così chiaramente riscontrata.