Leopold Stokowski (Londra, 18 aprile 1882 – Nether Wallop, 13 settembre 1977)
Tra il 1901 è il 1905 il giovane organista della chiesa di St.James pressi di Piccadilly a Londra avevano pseudonimo: “Stokes”. Elegante, alto e magro, con mani bianche e lunghissime, la fronte spaziosa e gli occhi di fuoco, il “maestrino” era atteso tutte le domeniche per i servizi liturgici. Non portava con sé alcun libro. Non ne aveva bisogno. Sapeva a memoria Toccate, Fughe, Corali e Fantasie di Bach e conosceva altrettanto bene inni e salmi del repertorio dei fedeli. Dopo le funzioni, spenti i ceri, si fermava all’organo e nell’oscurità improvvisava musica per ore e ore trasformando l’austero strumento in una fantasmagorica orchestra. Scendeva dalla consolle in “trance”; ubriaco di suoni e, uscito dal tempio, arrivava a piedi fino Hyde Park. Piano piano tornava la realtà e faceva un monte di progetti.
Tappe di una carriera
Stokese sarà un giorno il grande direttore d’orchestra Leopold Stokowski. Figlio di un polacco e di una irlandese, è nato a Londra il 18 aprile 1882 e ha seguito giovanissimo la vocazione musicale. Ha studiato contemporaneamente violino, pianoforte e l’organo, prima al Royal College of Music di Londra e poi in Francia e in Germania, diplomandosi infine al Queens College di Oxford. Nel 1905 si trasferì in America e per qualche anno fu organista di San Bartholomy a New York. Si andava intanto maturando la sua eccezionale personalità. E il sogno di dirigere un’orchestra si realizzò presto. Eccolo sul podio per la prima volta a Londra nel 1908. Tutti notano che il maestro è senza bacchetta e non tiene davanti la partitura. Questi per lui sono soltanto ostacoli, barriere. Stokowski non tollera di stare con il naso sul pentagramma e con una barchetta in pugno. Ha bisogno di sentirsi libero, di fissare negli occhi a uno a uno gli orchestrali, di controllare ogni strumento. Le sue mani non tracciano nell’aria rigidi disegni, ma sembrano plasmare gli accordi, lavorarne le armonie e chiarire il groviglio dei contrappunti. Tutti, da Toscanini all’ultimo ascoltatore del loggione, hanno ammirato le sue mani “espressive”. Qualcuno aveva anche chiesto a Toscanini perché non dirigesse senza bacchetta come Stokowski: “È perché”, rispose, “non ho, io, le mani abbastanza espressive”. Sì, la storia delle mani espressive è vera ma il “suono Stokowski” dipende più che dal gioco delle sue dita dalla curata preparazione dell’orchestra. Specialmente se deve concertare un’opera, Stokowski segue personalmente i cantanti. È capace di fermarsi per mattinate intere con incredibile pazienza sopra una sfumatura di strumentisti come sopra un passo secondario di un cantante. La sua più grande paura è che si ammali qualcuno e che questi venga sostituito all’ultimo momento con un altro artista. Le ire del direttore umilierebbero il povero disgraziato designato improvvisamente alla sostituzione.
Non esistono per Stokowski viole che facciano finta di suonare e tromboni non completamente responsabili della più esatta intonazione. Dal podio sente tutto e colpisce le più piccole negligenze. Per evitare un possibile rilassamento nelle ultime file dei violini, aveva escogitato per la Philadelphia Orchestra una singolare innovazione, quella cioè di far tenere per un certo periodo il posto di primo violino a turno a tutti i violinisti. Il risultato nel tempo in cui egli diresse la famosa orchestra (dal 1912 al 1936) fu eccellente. Mai si lasciato dominare dagli strumentisti o dai cantanti. Il suo desiderio è sempre stato quello di avere il controllo assoluto dell’orchestra stessa. A Philadelphia riuscì contro il parere delle dell’amministrazione ad aumentare il numero delle prove. Solo così poteva dare il via alla rieducazione del gusto degli ascoltatori, ai quali offriva non solo Beethoven o Brahms, ma anche una quantità enorme di opere nuove di compositori contemporanei. A chi gli fa capire che è lui fautore in America dell’introduzione dopo il 1920 di molti lavori d’avanguardia (memorabile la prima americana del Wozzeck di Alban Berg a Philadelphia il 19 marzo 1931) e gli chiede come reagisce adesso il pubblico dopo quasi cinquant’anni della sua difesa dell’arte moderna, risponde: “Una volta c’era solo un gruppo molto ristretto di interessati. La maggioranza era contraria e usava protestare con fischi, urla e ogni sorta di schiamazzo durante le mie interpretazioni di musiche contemporanee. Ora non è così. Vi è un gruppo di ascoltatori più numeroso di allora e non fischia più. Il pubblico è ben disposto ad ascoltare la musica contemporanea. Viviamo nella seconda metà del ventesimo secolo “. (Fine prima parte – estratto da “Le mani espressive di un direttore” di Luigi Fait – 1968)