«Dicono gli scienziati che siamo fatti di atomi, ma un uccellino mi ha raccontato che siamo fatti di storie» (Eduardo Galeano). Evolvere è essenziale per qualunque artista, in particolare per un ballerino, perché è precisamente il percorso che aiuta a diventare grande, a unire formazione, stile, personalità, immaginazione e inquietudini, e fa sì che il lungo viaggio di questa professione diventi un viaggio interessante, appagante, aperto alle altre arti. Un danzatore autentico deve cercare sempre la libertà, vale a dire il movimento puro secondo le nuove tendenze: in un momento storico come quello attuale, più che le compagnie classiche i teatri cercano quelle che offrano varietà e versatilità nel repertorio. Il compito dei direttori artistici è dunque di operare scelte che sviluppino e aiutino a crescere l’équipe artistica. Un esempio chiaro dell’esigenza di rinnovamento del balletto classico è Giselle (Parigi 1841, coreografia di Lucien Petipa e Adèle Dumilâtre), giacché le rappresentazioni attuali affiancano alla versione originale quella di Mats Ek (Stoccolma 1982) o di Akram Kham (Manchester 2016): tre versioni, tre stili, tre punti di vista estetici, tecnici e interpretativi diversi, che dimostrano la vitalità dello stesso soggetto coniugato in forme del tutto distinte. A volte bastano pochi anni perché una rivisitazione, o nuova interpretazione, si trasformi a sua volta in un capitolo fondamentale della storia della danza, cioè in un altro “classico”: è il caso del Sacre du printemps (Parigi 1913, coreografia originale di Vaslav Nijinsky), ormai conosciutissimo nella nuova lettura di Sasha Waltz (San Pietroburgo 2013). Il XX secolo ha accelerato il processo di modernizzazione (non solo) della danza, il modo di unire il linguaggio corporale e la drammatizzazione attoriale, le luci e i mezzi multimediali, ma non si potrebbero capire le innovazioni tecniche senza il contributo di personalità individuali: Vaslav Nijinsky, Ninette de Valois, George Balanchine, Birgit Cullberg, Kenneth Macmillan, Mathilde Monnier, Frederick Ashton, Maryse Delente, William Forsythe, Trisha Brown, Nacho Duato e tanti altri, la cui visione, spinta e ispirazione hanno fatto in modo che la loro eredità non si fermasse. Vaslav Nijinsky (1889-1950), di origini polacche, fu alunno di Enrico Cecchetti, ma terminò la carriera come coreografo di punta dei Ballets Russes di Diaghilev: nella sua opera più conosciuta – Prelude à l’après midi d’un faune – rivoluzionò il movimento e l’estetica, allontanandosi completamente dagli stili classici. Ninette de Valois (1898-2001), di origini irlandesi, fu la fondatrice del Royal Ballet; promosse la danza classica in tutta Europa, ma fu la prima ad alternare nelle stagioni della sua compagnia titoli del repertorio tradizionale e opere contemporanee, attraendo così nuovi artisti e nuovo pubblico. Il Royal Ballet è ancora oggi un modello di varietà stilistiche e di coesistenza di repertori disparati, animati da artisti di formazione, etnia e fisicità peculiari, che sulla scena offrono un mosaico del mondo contemporaneo. Frederick Ashton (1904-1988) fu un coreografo britannico prolifico nella rivisitazione del classici (non a caso, sin da giovanissimo aveva iniziato a lavorare con Ninette de Valois); tra le sue opere più conosciute La Peri (dunque un’opera che risale allo stile musicale neoclassico), Ondine e La fille mal gardé. George Balanchine (1904-1983) fu tra i fondatori dello stile neoclassico, ed è il creatore del metodo di danza che porta il suo nome. Tre furono gli ambiti principali che marcarono la sua formazione professionale: i Ballets Russes, il Music Hall e il Jazz durante il periodo americano, l’apprendistato più classico durante il soggiorno francese. La riflessione teorica scaturita da tale stratificazione stilistica fruttificò per forza in una proposta innovativa (il Metodo Balanchine), dalla tecnica molto complessa in fase di esecuzione, soprattutto per le interpreti femminili. Birgit Cullberg (1908-1999), svedese, studiò danza con Kurt Jooss-Leeder, Lilian Karina e presso il Royal Ballet; fu pioniera nell’unione di stile classico e moderno all’interno della stessa opera, che poi divenne una caratteristica del Cullberg Ballet, fondato negli anni Sessanta, ed è la madre di Mats Ek. Kennet Macmillan (1929-1992), britannico, è sempre ricordato per una nuova versione della coreografia di Romeo e Giulietta (interpretato da Margot Fonteyn e Rudolf Nurejev) e la creazione originale dell’Histoire de Manon nel 1974. William Forsythe (nato a New York nel 1949), di formazione americana, ha elaborato coreografie che oggi sono adottate da tutte le principali compagnie di danza del mondo, forse proprio perché marcate dall’assenza di armonia: sin dalla sua prima opera, Urlicht (1976), Forsythe ha fatto uso dei passi classici del balletto, ma in maniera disarticolata. Mats Ek (nato nel 1945) è conosciuto soprattutto per le sue reinterpretazioni: Giselle del 1982 e Il lago dei cigni del 1987.
Nel secolo XXI la storia di una delle arti più antiche continua a svilupparsi, insistendo nella rilettura coreografica del repertorio dei secoli precedenti, soprattutto del XIX. L’osservazione non è affatto banale, specialmente se si considera che la formazione accademica e tecnica di un ballerino classico e quella di un ballerino di danza moderna/contemporanea sono del tutto distinte, nell’estetica del gesto, nella libertà del movimento, nella fruizione dello spazio, nel grado di improvvisazione, insomma nell’utilizzo complessivo del corpo. La coreografia del balletto classico è nata grazie a un gruppo di maestri di ballo interessati a studiare e codificare passi, posture, linee di movimento già osservati e tramandati dalla tradizione europea, mentre la danza moderna è nata sostanzialmente da un’ansia di libertà, unita alla volontà di interrompere le regole e i codici tradizionali. Detto sinteticamente, il balletto classico compone il movimento, mentre la danza moderna lo scompone. Quando il grandissimo Mijail Baryshikov ha organizzato la tournée di Letter to a Man (in cui si congiungono prosa, danza e proiezioni multimediali), quando il Ballet de l’Opéra di Lyon ha messo in scena Dance (con uno spettacolare gioco di luci e ologrammi come dimensione di fondo), quando Sasha Waltz ha proposto Dido and Aeneas (innestando la coreografia alle strutture di una pièce del teatro musicale barocco), è stato chiaro che resta vigente un’esigenza fondamentale, quella di raccontare o rappresentare allusivamente una storia (caratteristica del balletto classico secondo la concezione di Marius Petipa), ma per mezzo di codici linguistici nuovi, innovativi o addirittura sperimentali.