Igor Stravinskij (1882-1971): “Oedipus rex” (1927)

Igor’ Fëdorovič Stravinskij, anglicizzato e francesizzato in Igor Stravinsky (Lomonosov, 17 giugno1882 – New York, 6 aprile 1971)
“Oedipus Rex” (Edipo Re)
Opera-Oratorio in due atti su testo francese di Jean Cocteau tradotto in latino da Jean Daniélou, tratto dalla  tragedia di Sofocle.
Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre Sarah Bernhardt, 30 maggio 1927
È lo stesso Stravinskij che nelle sue  Cronache  parla della  genesi di Oedipus Rex, l’Opera-Oratorio, in due atti, composta tra il 1926 e il 1927, per la quale egli scelse il latino per avere a che fare con  “una materia non morta, ma pietrificata, divenuta monumentale è immunizzata da ogni  trivializzazione “. Pensò subito ad un soggetto classico e a Jean Cocteau come autore del libretto; di comune accordo la scelta cadde su Sofocle mentre la traduzione latina fu affidata a Jean Daniélou. Stravinskij  puntava a comporre su un linguaggio “convenzionale, quasi rituale, di un livello così alto che si impone da se stesso” essendo una materia “puramente fonetica”. Il compositore scelse una forma musicale “sanzionata dal tempo,  omologata”, che lo indusse  utilizzare “formule anodine e anonime, appartenenti ad un epoca lontana “.
In queste affermazioni  di poetica, che allora ebbero una loro precisa e ragion d’essere, si scorgono i segni di una polemica antiromantica, tesa la ricerca di un “ordine” interiore e di un limbo dove fuggire dalla furia del momento in un paradossale tentativo di dare un nuovo significato a vocaboli legati ad altri circoli spirituali.
Tale “estetica dei ritorni” è sorretta da una vera e propria aggressività filologica, da un disperato anelito di assorbire i momenti paradigmatici della nostra cultura, quasi per puntellare per dirla con Eliot,  con i vecchi brandelli della tradizione, una civiltà giunta ormai alla sua estenuazione.  Stravinskij affermava che comporre si esauriva nell’invenzione: Oedipus Rex è  invece una presa di coscienza della impossibilità della invenzione pura: esistono solo materiali codificati, di cui l’autore si serve come di fossili che, strappati al loro contesto originale hanno perduto ogni forza d’urto ed emozionale, per diventare mere sigle emblematiche, refrattarie ad ogni individualità espressiva.
È da questa presa di coscienza  che nasce la stessa singolarità della partitura,  la sua tragicità, congelata dal procedere implacabile e disumano del Fato Greco, sulle aride sillabe di una lingua arcaica.  L’Oedipux adotta i luoghi deputati della tradizione: è costituito da una successione di arie, duetti, cori, ecc. utilizzando le più svariate provocazioni del linguaggio musicale. Si è  osservato che la musica barocca e l’operismo ottocentesco sono i poli estremi entro in cui si muove Stravinskij. Il compositore accosta queste formule tipiche in un montaggio irriverente, persino nel contesto di una sola aria o scena. Ad esempio all’aria di Giocasta che guarda alle suggestioni del recitativo accompagnato di estrazione barocca, alle curve patetiche dell’arioso di stampo handeliano, unito ad accensioni da melodramma romantico, puntellate peraltro dalla citazione del ritmo celeberrimo della quinta sinfonia (sentito, ovviamente, in chiave parodistica e non drammatica). Inoltre non mancano accompagnamenti esotici, da Aida, e nella stretta conclusiva tra Giocasta ed Edipo – nel momento di massima tensione, in cui comincia ad apparire la coscienza dell’omicidio – le due voci si lanciano in un vortice operettistico, che sta tra Offenbach e le parti brillanti del secondo atto di Carmen. Siamo dunque alla indifferenziazione assoluta, alla spietata freddezza nel porsi di fronte ai problemi psicologici. Un’altra riprova della strada antinaturalistica battuta da Stravinskij: Edipo, nel teatro ottocentesco, sarebbe stato impersonato da una voce grave o quantomeno da un tenore drammatico; il musicista invece ha scelto una voce chiara, un tenore lirico-leggero che si compiace in melismi arcaicizzanti.