Franco Corelli (1921- 2003): un ritratto (2)

Franco Corelli (Ancona, 8 aprile 1921 – Milano, 29 ottobre 2003)
A 100 anni dalla nascita
...”Non ho voce, non ho voce” mormorava Corelli indicando la propria gola. “Pazienza”  rispondeva Stanley Levine, che conosceva il ritornello. ” Vorrà dire che da canterai a mezzavoce.”
Adesso, sotto il palco, l’applauso che precedeva il Preludio e all’alzarsi del sipario andava spegnendosi. L”aiuto direttore d’orchestra, Ignace  Strasfogel, batté due colpi con la mano sinistra e fece un cenno all’arpista, che produsse alcuni accordi di squisita vibrazione. Poi Strasfogel si rivolse a Corelli. Il tenore, con un piede avanzato e il petto proteso in fuori, aprì la bocca e da questa sgorgarono suoni possenti e voluttuosi: “Oh Lola…”. A queste note, temerariamente sostenute, fecero seguito le altre. Il loro tono era vibrante e l’impeto di Corelli ancor più possente. Mentre proseguiva nell’esecuzione si piegò fremendo convulsamente. Il cuore gli batteva tanto forte e la testa cominciò a girargli. Per sostenersi si aggrappò all’harmonium. Concluse con un difficile pianissimo, per simulare la voce che si spegne in lontananza, quindi si accasciò sul piano dell’harmonium. Segui un boato di applausi. Il  pubblico però non poté assistere a quella che fu certo la scena più drammatica di tutto lo spettacolo: Corelli che, abbandonato sull’ harmonium, muoveva il capo da una parte e dall’altra, ansimando come un maratoneta sfinito.
Non era  soltanto istrionismo. Corelli aveva compiuto un grandissimo sforzo, e lo sapeva. Lentamente si sollevò dall’harmonium e si trascinò fuori. Quando comparve  fra le quinte alcuni cantanti in attesa del loro turno lo salutarono con acclamazione: “Bravo Franco!”, “Magnifico!”, “Hai cominciato bene.” Gemendo e comportandosi come se fosse stato preso a pomodori in faccia anziché applaudito entusiasticamente, tornò in camerino sbattendosi dietro la porta; si sentiva “di pessimo umore. Aveva 20 minuti di attesa.
Una forza della natura
La “Cavalleria rusticana”, ambientata nella provincia siciliana, è un’ opera breve ma esplosiva. Corelli ama il personaggio di Turiddu, forse perché in fondo ha molto in comune con lui. Anche Corelli è cresciuto, infatti, in provincia. Figlio di un ingegnere navale che non nutriva grande interesse per la musica, Corelli frequentava il primo anno di ingegneria dell’Università di Bologna quando un amico lo iscrisse, per gioco, a un concorso canoro. Tra la sorpresa generale lo vinse, e lascio l’università per studiare canto. Fatto ancora più strano, le lezioni al conservatorio gli fecero perdere la voce. Corelli si mise allora a studiare da solo, ascoltando per ore i dischi di Caruso e di altri grandi tenori. Alcuni critici trovano in Corelli qualche imperfezione tecnica, ma per la maggior parte degli degli amanti dell’Opera la cosa non è  molto importante. L’opera infatti non è  unicamente da ascoltare, ma è soprattutto una rappresentazione drammatica. Assistere a un’opera è come assistere a un uragano; ci si può quindi aspettare di essere assaliti dall’immane e sfrenata forza della natura. Ecco cosa significa un’esibizione di Franco Corelli.
Il pubblico impazzì
Levine tornò a bussare la porta del suo camerino: “Franco? Sei pronto, Franco?” Corelli uscì sorbendo da un bicchiere grandi sorsate di tè e miele. Pochi minuti dopo e irruppe sulla scena per eseguire il grande duetto con il mezzosoprano Grace Bumbry. Questa volta andò tutto liscio. La musica era lineare, melodica e animata da un inesausto vigore. Corelli cantò senza sforzo apparente, con effetti sorprendenti; al termine della scena il pubblico esplose in un applauso frenetico. L’ultima romanza dell’opera è l’Addio alla madre. Corelli non l’affrontò con cautela,  ma con baldanza. Il primo grido: “Mamma!” aveva la solidità di una campana, ma era anche commovente per l’ansia che lo premeva. Poi, d’improvviso, quando Turiddu lascia capire che non tornerà più e prega la mamma di fare “da madre a Santa”, la voce di Corelli si  ruppe in singhiozzi melodici e in sussulti. Erano gli urli di un animale ferito. L’ultima acuto –  un travolgente la bemolle – si librò nella sala come un uccello liberato dalla gabbia.
Questa volta il pubblico impazzì. Voci tremanti d’emozione gridavano: “Bravo!” Ci furono urli e fischi di approvazione, all’americana. Quando Corelli uscì pesantemente di scena, sembrava anche lui un po’ frastornato. Un assistente di palcoscenico  lo spinse di nuovo fuori dalle quinte perché rispondesse alle chiamate del pubblico. Ce ne furono sei, e ogni volta gli applausi scrosciarono fragorosi. A poco a poco un largo sorriso illuminò il volto di Corelli e, quando tornoò fra le quinte, era raggiante.
Gli sforzi compiuti in quell’ora e 20 minuti di spettacolo gli erano costati un chilo e mezzo di peso. Provato fisicamente ed emotivamente, Corelli per rimettersi dovette dormire per molte notti dalle 10 alle 12 ore. Tornò con passo spedito nel suo camerino e ancora una volta chiese se stesso: “Pensi di farcela cantare a quest’opera stasera ?” La risposta fu: “Sì, sì! Ce l’ho fatta!” (Fine)
(Estratto da “Franco Corelli quella sera superò se stesso” di William Honan Holmes, New York, 1970)