Soprano Clara Petrella (Greco Milanese, 28 marzo 1914 – Milano, 19 novembre 1987)
È stato il musicologo Guido Pannain a definire Clara Petrella “attrice di musica”. Non c’è miglior modo di ritrarla. Soprano lirico, secondo la classificazione di scuola, la cantante sta di fatto agli antipodi di altre che hanno loro in gola due punti di una Caballé tanto per fare un esempio. A quanti dicono che la voce della Petrella non è bellissima, Pannain risponde che qui incomincia il suo fascino: perché una voce come questa, non rischia di perdersi “nel narcisismo della contemplazione di se stessa “. La definizione scolpisce anche il personaggio umano: quello cioè di una primadonna non invaghita della propria immagine artistica.
Nata a Milano da genitori pugliesi, tradizioni musicali scarse. La nonna materna, con qualità vocale non comuni, sarà costretta dai dai costumi del tempo a rinunciare al teatro, C’è anche una sorella maggiore che ha la voce pura, cristallina, ma soffre di panico se ad ascoltarmi ci sono più di due. Questa sorella insegna a Clara le prime cose del canto, finché viene il momento di entrare al conservatorio. Finiti gli studi, prima vittoria al concorso di Firenze, e altre gare più o meno ardue, provinciali e nazionali. Il debutto a Milano al teatro Puccini, in Bohème seguono gli ingaggi in altre piazze: Reggio Emilia, Parma, Bologna e, Modena, Piacenza. Le tappe successive si chiamano Covent Garden, teatro La Scala, Metropolitan. Opéra di Parigi.
Determinante, l’incontro con il Ildebrando Pizzetti che la Petrella ricorda ancora oggi con commozione. “Cantavo a Lucca il Tabarro di Puccini, con Gavazzeni. Dopo la recita, mi vedo arrivare Pizzetti in camerino. Si siede e mi dice: Senta un po’ lei, perché non interpreta le mie opere? Gli rispose schiettamente che le sue opere, io, non le avrai mai cantate: musica troppo difficile, personaggi troppo complessi e tormentati. Il maestro sorrise, senza replicare. Passò del tempo. Un giorno fui chiamata dal teatro La Scala: mi offrivano di cantare una delle opere di Pizzetti più belli, la Debora e Jaele. Accettai, ebbi successo “. È ormai assodato che la cantante è la più grande interprete pizzettiana: per lei il musicista scrisse La figlia di Iorio, per lei Clitemnestra. C’è poi da raccontare quello che non tutti sanno, cioè il temporaneo divorzio dall’autore Pizzetti, dopo il trionfo della Figlia di Iorio. “Incominciai a studiare l’opera in estate: faceva caldissimo. Lavorai sei, sette mesi. La mia interpretazione al San Carlo di Napoli a detta dei critici e del pubblico, fu superba: lo dico senza modestia, perché è la verità. Ma la parte mi costava, mi sfiniva. Un giorno dissi a Pizzetti che se avessi continuato a cantarla ci avrei lasciato le penne. Il personaggio mi faceva troppo male. Pizzetti, questa volta non sorrise, si mostrò assai anzi assai deluso. Anche perché quell’anno ero stata scritturata in moltissimi teatri. Dopo due anni, però, accettai di cantare La Figlia di Iorio alla Scala: mi accorsi che riuscivo a darmi anima e corpo al personaggio senza che il personaggio riuscisse a distruggermi: avevo “masticato” la parte, la dominavo “.
Come Ildebrando Pizzetti altri autori hanno scritto una o più opere per la cantante-attrice Clara Petrella: nel 1951, Il Console di Giancarlo Menotti, consolidò una fama già forte è diffusa. Ma l’artista non mostra preferenze: “Vede“, mi dice,” in questi giorni tanto all’Opera di Roma Clitemnestra e la preferisco ogni personaggio. Domani dovessi interpretare Uno sguardo dal ponte di Rossellini o Manon Lescaut, le mie preferenze cambierebbero”.
Manon di Puccini la Petrella L’ha cantata centinaia di volte, in Italia e all’estero. A Roma, nel 1952 conquistò con quest’opera un’altra fa ma quella dell’eleganza, della cura dell’immagine. La passione per i costumi, per la Petrella, non sembra uno sfoggio ambizioso: l’artista afferma che una certa decadenza del teatro lirico dipende anche dal vecchiume dei palcoscenici, dai parrucconi. dagli abiti raffazzonati. “Sono arrivata a odiare l’arte lirica”, mi dice, “non sopporto più il corista con le calze che cadono, la comparsa con la forcina che pende. Si ha un bel dire che da lontano queste cose non si vedono: il pubblico nota tutto e l’incanto sparisce”. Odiare il teatro lirico e amarlo fino al sacrificio assoluto: una contraddizione che molti cantanti patiscono, Ma la Petrella forse più di ogni altro. “Il giorno in cui smetterò di cantare, chiudo la bocca, chiudo il pianoforte, faccio sparire tutto. Basta: cala una saracinesca”. Incidere dischi non le interessa. “La mia voce non è fonogenica”, mi spiega, “è troppo vibrata”, non rende. Poi a me non importa che rimanga: quando sono finita io, Buonanotte!”.
Aldilà di queste amare considerazioni, la cantante concentra tutte le sue energie per l’arte: “La musica per me è una missione. Non capisco come facciano certi cantanti ad aspirare solo al successo. Imparano uno spartito, o dicono di impararlo, in otto giorni: io ci metto otto anni. S dovessi interpretare una Manon, che ho cantato centinaia di volte, ricomincerei a studiarla dalla prima all’ultima nota. Sono sempre andata in teatro preparatissima: in cambio non ho mai avuto discussioni con i direttori d’orchestra”. Clara Petrella ha cantato con De Sabata, con Karajan, con Mitropoulos. “Karajan è simpaticissimo, coscienzioso. Non bada alle quisquilie, lascia l’artista libero di cantare come meglio sa e crede. Però lo giudica al primo colpo d’occhio. Non amo i direttori troppo buoni, desidero essere martirizzata, se occorre”.
Anche questa volta, a Roma, ha ripreso in mano la partitura della Clitemnestra, come se fosse un’opera mai studiata. Non ha fatto una passeggiata per la città, se non nel tratto albergo-teatro. “I miei amici mi rimproverano di starmene qui, in camera mia, ma io sto bene”. Nella segregazione della sua stanza la cantante legge libri di letteratura russa, ma soprattutto i classici greci, nelle cui opere vive il personaggio che interpreta con più forza e passione: Clitennestra. Per scoprire in scena il volto dell'”inclita Erinni” di Eschilo, nella sua cruenta espressione, occorre appartarsi, immergersi nel silenzio vago Clara Petrella l’ha capito da tempo. (Estratto “Pizzetti scrisse per lei le sue opere più belle”, di Laura Padellaro, Roma, 1968)