Antonín Dvořák (Nelahozeves, Kralup, 1841 – Praga 1904)
Concerto in si minore per violoncello e orchestra op. 104
Allegro-Quasi improvvisando: Adagio ma non troppo-Finale
“Perché mai non seppi che qualcuno avrebbe potuto comporre un concerto per violoncello come questo? Se solo lo avessi saputo, ne avrei composto uno tanto tempo fa”.
Queste parole, dette da Johannes Brahms, amico e mentore di Dvořák, fanno chiaramente intendere quanto sia difficile portare a termine una composizione per violoncello solista, tanto che gli stessi studenti di Composizione dei Conservatori di musica sono dissuasi dal compiere tentativi del genere all’inizio dei loro studi. Dvořák, nel 1865, sebbene fosse all’inizio della sua carriera, cominciò a comporre un concerto per violoncello solista in la maggiore. Il pezzo fu composto per Ludevít Peer, un musicista che egli conosceva molto bene in quanto entrambi suonavano nell’orchestra del Teatro Nazionale Ceco diretta da Bedřich Smetana. Egli consegnò la partitura per violoncello con accompagnamento di pianoforte a Peer perché fosse riesaminata, ma nessuno dei due si preoccupò di lavorare ad essa. Questa partitura sarebbe stata recuperata nel 1925. Altri musicisti fecero a Dvořák lo stesso invito, che egli sempre rifiutò, fino a quando non decise di assecondare la richiesta del grande violoncellista e suo amico Anuš Wihan, componendo, fra il novembre 1894 e il febbraio 1895, alla fine del suo secondo soggiorno americano, il concerto, che fu eseguito per la prima volta a Londra il 19 marzo 1896, sotto la direzione dell’autore e nell’interpretazione solista di Leo Stern.
Il rifiuto di Dvořák di comporre in precedenza concerti per violoncello solista dipendeva dalla sua convinzione che questo strumento dalla voce scura figurasse bene nel contesto dell’organico orchestrale, ma fosse totalmente insufficiente per ricoprire il ruolo del solista. Quando, tuttavia, nonostante le riserve di cui sopra, si decise a comporlo, egli stesso confessò, in una lettera ad un amico, di essersi notevolmente sorpreso per questa sua decisione. Egli privilegiava, infatti, le note musicali medie e manifestava viva contrarietà, che, a volte, diventava vera e propria insofferenza per le note nasali acute e per quelle sussurrate del registro grave. Questa meraviglia sarebbe, però, venuta meno e la sua decisione sarebbe diventata più comprensibile in seguito ad un fatto che merita di essere ricordato. Durante il periodo passato a New York come direttore del Conservatorio Nazionale, Dvořák constatò che uno degli insegnanti del Conservatorio, Victor Herbert, si era già cimentato con successo nella composizione di concerti per violoncello solista.
Il concerto di Dvořák, che fu l’ultimo tra quelli da lui composti per strumento solista, presenta una sua peculiarità, determinata dal fatto che si discosta dalla forma tradizionale del concerto per assumere quella di una sinfonia con violoncello obbligato. Nei tre movimenti, di cui si compone il Concerto, l’orchestra ha una funzione fondamentale nell’esposizione dei temi, ma non sovrasta il suono del violoncello. Tutto il Concerto è dominato dal fervore romantico presente già nel primo movimento, Allegro, dove assume particolare rilievo un perentorio e marziale, nei ritmi puntati, tema principale, marcato nella partitura con l’indicazione dinamica risoluto. L’incipit del primo movimento, in forma-sonata, è costituito da un’introduzione piuttosto lunga fatta dall’orchestra che fissa i temi e permette al solista di variarli in modo virtuosistico. Il perentorio primo tema è perorato dall’orchestra nella parte finale del movimento in una scrittura strumentale che ricorda da vicino l’esposizione del primo tema del primo movimento della Sinfonia “dal nuovo mondo”. Al movimento di apertura segue un Adagio altrettanto lungo dallo spiccato carattere pastorale e, al tempo stesso, tumultuoso, in cui l’ispirazione musicale è più evidente e, altresì, pervasa da un lirismo tipicamente romantico. Assume, quindi, particolare risalto l’intensa partecipazione drammatica del solista che dialoga con l’orchestra in una scrittura che ne esalta la cantabilità e si fonde perfettamente col controcanto degli strumenti dell’orchestra. Il terzo ed ultimo movimento, pervaso da nostalgica inquietudine, è formalmente un rondò in cui la melodia diventa più appassionata e struggente fino a quando, in uno degli episodi, viene ripreso il tema del secondo movimento in modo lento e calmo, realizzando, così, lo schema ciclico già sperimentato nella Sinfonia “dal Nuovo Mondo”. Di grande effetto, infine, è la parte conclusiva.