Melodramma in due atti su libretto di Felice Romani. Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 14 febbraio 1829.
Su una copia del libretto per la prima rappresentazione della straniera a Milano, stampato da Antonio Fontana nel 1829 ( conservata al museo teatrale della Scala), nella pagina dedicata agli interpreti si leggono, a penna, alcune osservazioni dovute a un ignoto spettatore: Méric-Lalande,”eccellente attrice”; Stanislao Marcionni, “e son contento”., Carolina Ungher, “brava”., Domenico Rejna, “e buono”; Antonio Tamburini, “e benissimo”; Domenico Spiaggi, “e va bene”; Vincenzo Bellini, “basta”.
E quel “basta” ci chiarisce subito le intenzioni dello spettatore, rossiniano di ferro e fedele allo “status quo ante”.
Il soggetto tratto da un prolisso romanzo del d’Arlincourt, “L’étrangère”, mette in difficoltà Felice Romani che ne trae un libretto altrettanto complesso nel quale i personaggi sono scarsamente caratterizzati. Fiino all’ultimo non risultano chiari o definiti i sentimenti di Alaìde, La “Straniera”, e non bastano i suoi veli neri, sua solitudine O lo scivolare silenziosa in barca scura sul lago per farne un’eroina romantica; Arturo non è un amante ma solo un fanatico ostinato e cocciuto., Isoletta come personaggio non esiste è un puro pretesto; piuttosto scolorita (ma il meno anonimo) è Valdeburgo. (…)
La Straniera è opera da meditare, e non si rivela una prima lettura In un primo momento è evidente il peso che hanno avuto L’esperienza è successo del pirata, e alcune formule, alcune strutture si ripetono accortamente il pericolo era stato previsto punto Bellini aveva ventisei anni e aveva dimostrato una maturità musicale e drammatica eccezionali, quasi la faccio aspettare una fiammata priva di conseguenze. il musicista però aveva armi per difendersi: imporsi di non scrivere più di un’opera all’anno, in un momento in cui compositori di un certo credito erano sommersi da ordinazioni (vedi la frenetica attività di Donizetti) era già un atto di grande saggezza.(…)
Berlioz amò La Straniera, e fu il suo più convinto riconoscimento del genio di Bellini. Quando a Firenze, nel 1831, vide I Capuleti e i Montecchi, li definì: “Un niente, ignobile, ridicolo, impotente”. La Straniera gli andava più a genio: poteva essere scambiata per una storia romantica e, quell’esaltato di Arturo era più vicino ai suoi gusti. Né, ugualmente fu tenero con Norma, lui che adorava La Vestale di Spontini. Resta il fatto, che solo dopo la morte di Bellini il giudizio di Berlioz si addolcì e si traduce almeno parzialmente in stima generalizzata. (…)
Nel primo atto dell’opera, si entra nel vivo del dramma quando si presentano i due protagonisti: Arturo e Alaide. Siamo alla scena dove Arturo giungere alla capanna deserta di Alaide, che sopraggiunge da lontano cantando sul liuto. La scena è aperta da un introduzione strumentale (lento e maestoso). Ottave solenni, un accenno dell’oboe che poi spiegherà una bella melodia accompagnata da un fervido movimento degli archi. Bellini adotta spesso questa introduzioni affidate a uno strumento solista, che erano in uso nel tempo; ma il compositore sa conferire a questa pratica un nuovo carattere con soluzioni di raffinata genialità. (…)
Il duetto tra Alaìde e Arturo è di esemplare compostezza. anche quando Bellini non ha momenti particolarmente felici, non cade mai nell’effetto scontato o nel grigiore; la mano è sempre signorile attenta, ne manca un palpito nella parola di Arturo: “Ah! Se tu vuoi fuggire”, dove il compositore trova un momento di grande intimità. Si è accostato questo episodio al Preludio op.28, n.24 di Chopin. Non plagio, non influsso, ma analogia, come in altri casi, tra due temperamenti musicali sempre tesi alla ricerca di espressioni profonde. (..)
Nel secondo atto, Bellini convoglia la tensione verso il finale dell’opera. Il quadro del tempio ha inizio con un coro di festa: “È dolce la vergine”, gaio e sontuoso insieme, ma puramente decorativo, al quale segue un quartetto che nulla aggiunge di particolare e che porta al finale imperniato su Alaìde. È evidente la volontà di ripetere la formula di finale del Pirata, che aveva riscosso tanto successo; è umano che Bellini si è caduto in questa ripetizione. Si ripete il “mimodrame”. Alaìde è agitata, “quasi fuori di sé”. Le didascalie continuano, come per Imogene, durante il recitativo: “Nell’ultima disperazione…fa dei passi irregolari…resta sospesa, come colpita da nuovo pensiero… s’inginocchia e stende le mani al cielo pregando”, e in quest’ultimo atteggiamento fu immortalata la Méric-Lalande in una celebre litografia del tempo. Poi la cavatina “Ciel pietoso”, bella, ma non quanto quella di imogene. Anche la cabaletta “Or sei pago, o ciel tremendo”, non ha la forza dirompente di quella del Pirata. La Straniera, con i suoi momenti aurei, è dunque un’opera di transizione, ma anche di meditazione. Bellini sembra raccogliere le forze per proseguire nel suo discorso melodrammatico, che comincerà ora ad avviarsi verso gli esiti più alti. (Estratto da “Bellini” di Giampiero Tintori, Rusconi, 1983)