Giuseppe Verdi (1813-1901): “Un ballo in maschera” (1859)

Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma, tratto dal dramma “Gustave III, ou le bal masqué” di Eugène Scribe. Prima rappresentazione: Roma, Teatro Apollo, 17 febbraio 1859.
Primi interpreti:
Julienne Dejan (Amelia)
Pamela Scotti (Oscar)
Zelinda Sbriscia (Ulrica)
Gaetano Fraschini (Riccardo)
Leone Giraldoni (Renato)
Pochi mesi dopo la prima rappresentazione del Simon Boccanegra, nel marzo del 1857, Verdi porta termine al rifacimento dello Stiffelio, che diventa Aroldo, in scena nell’agosto dello stesso anno a Rimini. A dirigere è un giovane di belle speranze, il ravennate Angelo Mariani., grande personalità musicale, è il primo direttore d’orchestra nel senso moderno del termine e Verdi è particolarmente colpito dal talento di questo giovane artista. Alle rappresentazioni del Simon Boccanegra e dell’ Aroldo per la prima volta Verdi e la Strepponi sfidano l’opinione pubblica e si presentano in pubblico. Dopo gli anni dell’isolamento, la coppia esce allo scoperto e in occasione del vicino impegno con Napoli, Verdi annuncia a un amico napoletano: “Verrò a Napoli con mia moglie”. Dunque Verdi ha un impegno con il teatro San Carlo e pensa al Re Lear. Con la collaborazione di Antonio Somma ha già redatto il libretto, ma le  complicazioni vengono dal teatro che non assicura a Verdi il cast desiderato e il  progetto viene così nuovamente accantonato. Parte comunque per Napoli, con un altro progetto: un libretto preesistente del francese Eugène Scribe, “Gustave III, ou le bal masquè”, messo in musica nel 1833 da Daniel Auber,  quindi tradotto e riadattato da Salvatore Cammarano e musicato da Saverio Mercadante, nel  1843, con il titolo Il  reggente.
A tre  mesi dalla data prevista per la prima, Antonio Somma lavora al nuovo adattamento, intitolato Una vendetta in domino. La stesura del testo procede speditamente: una copia giunge ben presto sul tavolo della Camera di Revisione, la censura dello Stato napoletano. E qui ricomincia l’ennesima battaglia tra i censori e il musicista: richieste di modifiche da un lato, difesa a oltranza dall’altro, e intanto passa il tempo, salta la prima, finisce la stagione e Verdi si ritrova tra le mani un libretto completamente snaturato anche nel titolo, Adelia degli Adimari. Il Maestro si rifiuta di musicarlo e decide di lasciare Napoli per Roma, dov’è andato in scena un dramma in prosa sullo stesso argomento, senza alcun intervento della censura. Il testo passa dunque alla censura romana, la quale da la sua approvazione a patto che la vicenda venga trasportata in un paese extra europeo senza sovrani.
La pazienza è al limite. Verdi e Somma le pensano tutte, perfino il Caucaso, e alla fine la scelta cade sulla Boston del 1600, mentre il protagonista sarà un semplice governatore. Dopo un nuovo lavoro di sistemazione e con il titolo definitivo Un ballo in maschera l’opera va in scena al teatro Apollo, il 17 febbraio 1859, con grande successo. In  questa occasione si diffonde il grido “Viva Verdi”, volendo indicare con la parola V.E.R.D.I. Vittorio Emanuele Re d’Italia. Con Un ballo in maschera anche la critica del tempo non manca di evidenziare un altro decisivo passo avanti della drammaturgia verdiana: le scene si fondono in una rapida successione, la parola scenica porta a una trasformazione dell’aria in una specie di monologo, una sorta di specchio dell’animo. Questo per dire che la distinzione tra il cosiddetto recitativo e l’aria è impercettibile. Il canto, sillabico e spianato, abbandona completamente i vezzi belcantistici.
Restano solo gli svolazzi di Oscar: la sua brillantezza è un voluto contrasto con i momenti drammatici dell’opera, così come lo sono le risate dei congiurati alla fine del secondo atto, un commento stridente al dramma di Amelia e Renato. Una contrapposizione che troviamo anche nel carattere di Riccardo, brillante, ironico, ma anche malinconico e introspettivo. Dopo questa tutt’altro che facile impresa di portare in scena Un ballo in maschera, Verdi entra in un periodo di depressione e sconforto e dalle sue lettere traspare molto chiaramente il desiderio di abbandonare le scene e di ritirarsi in campagna.