Gioachino Rossini (1792-1868): “Tancredi” (1813)

Melodramma eroico in due atti su libretto di Gaetano Rossi, da “Tancrède” di Voltaire. Prima rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 6 febbraio 1813.
Primi interpreti:
Adelaide Malanotte-Montresor (Tancredi)
Elisabetta Manfredini-Guarmani (Amenaide)
Pietro Todran (Argirio)
Luciano Bianchi (Orbazzano)
Carolina Sivelli (Roggiero)
Teresa Marchesi (Isaura)
È con Tancredi, a Venezia, il 6 febbraio 1813, che Rossini firma il proprio colpo di genio nell’ambito del Grand-Opéra. Ecco, la divina giovinezza di Rossini, questa cura della gloria affabile e gaia, questo melodramma nel quale l’eroe irride le lacrime per sfidare l’amore, la morte, i nemici, i traditori, la propria beneamata che crede infedele, e tutto questo fino a trionfare e morire nella più soave e sua sublime armonia ritrovata.
Era un’opera per Stendhal, un’opera napoleonica. “Rossini faceva della musica come Napoleone vinceva le battaglie, al galoppo“, diranno più tardi i fratelli Escudier. C’è da credere che il fracasso dei cannoni, lo choc delle armate in battaglia da un capo all’altro dell’Europa, finissero per apporre il proprio sigillo sulla partitura, per incidervi l’eco  cavalleresco della lotta e della libertà. In questa opera Rossini si sbarazzava di tutti i vecchiumi dell’opera seria. Ed è  Stendhal a raccontarlo: “Ci sono degli errori nel primo finale del Tancredi, mi diceva quella sera a Brescia il simpatico Pellico (il primo poeta tragico d’Italia, oggi in prigione per quindici anni nella Fortezza dello Spielberg)., vi sono dei salti da un suono all’altro, in questo finale, che sorprendono l’orecchio. Ma l’orecchio, gli rispondevo io , non deve sempre essere stupito? Se volete fare delle delle scoperte, lasciate un po’ veleggiare senza meta i vostri vascelli sui mari. Se non ci fossimo mai permessi di stupire l’orecchio, il focoso e singolare Beethoven sarebbe mai stato il successore del savio e nobile Haydn?”.
Certo si è già detto troppo sul recitativo e l’aria di Tancredi al primo atto, “Di tanti palpiti “, riscritti in qualche minuto da Rossini su richiesta di Adelaide Malanotte. la sua melodia beneficiò subito di una popolarità considerevole (qualcosa di simile doveva accadere a “La donna è mobile” dal Rigoletto, quarant’anni più tardi), ma l’opera racchiude ben altri tesori: la tenera cavatina di Amenaide “Com’è dolce all’alma mia”, il suo duetto con Tancredi che la riconosce  in un incontro stupefacente tra una voce di soprano e una di contralto, il sestetto finale del primo atto di una violenza drammatica, di un lirismo pieno di fiamme, i dolori di Amenaide nella prigione al secondo atto. (…)
E come dimenticare infine la conclusione tragica aggiunta da Rossini per la ripresa dell’Opera Ferrara il 20 marzo 1813, finale che era scomparso dopo di allora e che è stato recentemente riesumato? Tancredi agonizza nella più perfetta semplicità, sugli accordi lungamente tenuti dei violini. Ed è la conclusione, senza una lacrima, una ridondanza, un grido inutile. (…)

L’opera conobbe un vivo successo a Venezia al momento della sua creazione. Soprattutto fece di Rossini l’idolo dei veneziani. Una sera dopo la prima, Rossini gironzolava lungo un canale, quando venne riconosciuto da alcuni gondolieri. Questi lo circondarono, gli fecero festa. Vennero cantate per lui delle arie del Tancredi e de La pietra del paragone. In poco tempo si formò una folla. Rossini fu portato in trionfo di canale in canale. Tutta Venezia si ridestò. I palazzi si illuminarono. Venne organizzato attorno a lui un concerto improvvisato. Lo riaccompagnarono gloriosamente in albergo. Il maestro camminava su un tappeto di fiori. Ebbene sì, queste erano la vera gloria, l’insolenza felice degli ammiratori, il mondo dei giochi, dei canti, della delle risa! E fu proprio Tancredi ad assicurare la nomea internazionale di Rossini. La sua prima opera lirica ad essere esportata in tutta Europa non poteva essere che un’opera seria. (Estratto da “Gioachino Rossini” di Frédéric Vitoux, Parigi, 1982)