Melodramma tragico in due atti su libretto di Gaetano Rossi, dalla “Tragédie de Sémiramis” di Voltaire. Prima rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 3 febbraio 1823.
Primi interpreti:
Isabella Colbran (Semiramide)
Rosa Mariani (Arsace)
Filippo Galli (Assur)
Giovanni Sinclair (Idreno)
Luciano Mariani (Oroe)
Matilde Spagna (Azema)
Il 3 febbraio 1823, Rossini fece rappresentare alla Fenice di Venezia la sua ultima opera italiana: Semiramide.
Questo addio che ci sconvolge è un ritorno alle origini. Ispirandosi alla tragedia di Voltaire, il suo librettista si è rifatto alla grande tradizione delle opere serie, con le loro scenografia antiche, le maledizioni esacerbate, le in verosimiglianze più gustose (…).
Il librettista si chiamava Gaetano Rossi e aveva già scritto per Rossini La cambiale di matrimonio e Tancredi. Era suo collaboratore da molti anni.
Per Semiramide Rossini ricevette 5000 franchi, una somma favolosa all’epoca. La compose in trentatrè giorni e secondo lo stesso Rossini è l’unica delle sue opere italiani per le quali poter usufruire di tutto il tempo che voleva, senza essere messo alle strette da impresari irritabili e da un calendario impossibile. E l’opera trionfò. Ventotto rappresentazioni consecutive seguirono alla prima. Tutte le grandi ribalte europee la misero subito in repertorio, e anche tutte le grandi cantanti vogliono interpretarla: la Pasta, la Malibran, la Pisaroni, la Sontag, l’Alboni. Strana reazione invece quella di Stendhal “Il grado di germanismo di Zelmira non è niente in confronto a quello di Semiramide che Rossini ha dato a Venezia nel 1823. Mi sembra che Rossini abbia commesso un errore geografico. Quest’opera, che a Venezia ha evitato i fischi solo grazie al grande nome di Rossini, sarebbe potuto sembrare sublime a Koenigsberg o a Berlino; non mi rammarico affatto di non averla ascoltata a teatro; quello che ho sentito cantare al piano non mi è piaciuto per niente “.
Qui che ci colpisce al contrario in quest’opera è la differenza riscontrabile per esempio con Mosè in Egitto o Maometto II, che segnavano l’evoluzione di Rossini verso il Grand-Opéra francese e tedesco, riccamente orchestrato e dalle voci più sacrificate. Semiramide è l’ultima felicità dell’opera seria, la profusione di Belcanto, di ornamentazioni folli, una leggerezza una morbidezza di voci, una strabiliante fantasia melodica che poco si cura della storia drammatica delle situazioni. L’ouverture è di un’eccezionale brillantezza sonora e Rossini non fa nemmeno lo sforzo di cercare di evocare un Oriente sia pur di paccottiglia. L’orchestra è di una luminosità, di una trasparenza frizzante. Siamo a Venezia, che diamine, non a Babilonia!!!
La Cavatina di Arsace al suo arrivo, “Eccomi alfine in Babilonia”, è di una eleganza deliziosa. Quella di Semiramide, “Bel raggio lusinghier”, nella sua sontuosa acrobazia vocale, solleva immediatamente e immancabilmente tempeste di applausi. Si rimpiange quasi la serietà da cui veniva colto Rossini con i grandi insieme drammatici, come l’ultimo quadro del primo atto, davanti al mausoleo del re Nino, con i suoi notabili e i suoi sacerdoti di una severità così triste. ma il meglio di Semiramide risiede soprattutto nei duetti cangianti tra la regina e suo figlio, soprano e contralto. come la scena III del secondo atto, quando Arsace gli rivela di essere sua madre “Ebben, a te… Giorno d’orrore… Madre, addio… “. L’arte vocale di Rossini sfiora allora l’astrazione più pura. I ricami del canto non cessano di arricchire e di tessere la bellezza della linea melodica. Eccola finalmente, la fine dell’opera seria, la morte di una civiltà! Rossini lascerà l’Italia, abbandonerà il suo il suo genio naturale. Non si può più ascoltare Semiramide senza un indicibile malinconia. (Estratto “Gioachino Rossini” di Frédéric Vitoux, Parigi, 1982)