Melodramma eroico in due atti su libretto di Domenico Gilardoni . Prima rappresentazione: Napoli, Teatro di San Carlo, 1 gennaio 1828.
(…) Alla fine del 1827 Gaetano Donizetti legato al impresario napoletano Domenico Barbaja da un contratto che gli imponeva la consegna di ben quattro opere all’anno per un triennio, ottemperando puntualmente ai suoi obblighi, portava a termine L’esule di Roma su libretto di Domenico Gilardoni su un soggetto romano antico. L’opera, in due atti come era consuetudini e di quegli anni, andò in scena al San Carlo di Napoli l’1 gennaio 1828, con una compagnia di eccezione: il tenore Berardo Winter, il soprano Adelaide Tosi, il basso Luigi Lablache e vi ottenne uno strepitoso successo confermato in seguito da numerose repliche in molti teatri italiani e stranieri fino al 1869, anno della sua ultima comparsa ancora a Napoli. (…)
Tratto da una pièce francese del 1804, Androclès, ou le lion reconnaissent di Louis Charles Caignez, fu adattato nella lingua italiana dell’attore Luigi Marchionni, fratello maggiore della celebre Carlotta, con il titolo Il proscritto romano. Vi si narra di un senatore dell’epoca di Tiberio, Murena, che, per oscuri motivi politici ha fatto condannare ad esiliare, pur sapendolo innocente, il fidanzato della figlia, Settimio, figlio a sua volta di un suo antico benefattore. Il ritorno clandestino a Roma del giovane per rivedere l’amata e, l’inevitabile condanna a morte ed il conseguente rimorso di Murena, costituiscono il nucleo drammatico del libretto che, tuttavia, si conclude con un lieto fine. Questo semplice canovaccio, nel quale si intrecciano elementi del teatro neoclassico – il rimorso del vecchio padre – e spunti romantici il proscritto che mette a repentaglio la vita per amore – impegnò notevolmente Donizetti che si studiò di affinare nobilitare la sua scrittura come l’aulico argomento richiede. Innanzitutto i procedimenti armonici appaiono più accurati ed elaborati, la strumentazione più robusta e colorita, sicchè l’orchestra, da semplice accompagnamento delle parti di canto, acquista un rilievo e uno spessore insoliti e funge altresì da tessuto connettivo tra un episodio vocale e l’altro., assai indovinato è, inoltre, l’impiego di strumenti solisti – flauto ed oboe – il cui canto accorato accentua il delicato lirismo che pervade la partitura. Più convenzionali risultano, invece, quegli interventi strumentali che vorrebbero adeguarsi alla grandiosità classicheggiante e che riecheggiano le turgide sonorità spontiniane; nell’ampio e paludato fraseggio di gran parte della partitura riaffiora infine chiaramente il ricordo del linguaggio melodrammatico di Simone Mayr, L’antico maestro, mentre qua e la a si intravvedono perfino rispettose rimanescenze mozartiane. Rilevante pure la presenza del coro con funzioni non solo di mera circostanze, ma anche di viva partecipazione drammatica.
Quasi tutti gli autori, parlando di quest’opera, chi con maggiore chi con minore simpatia, concordano con l’individuale i momenti più ispirati della partitura nel duetto, poi terzetto che chiude insolitamente il primo atto in luogo del consueto concertato, e nel “delirio” di Murena del secondo atto. Nel primo caso è già singolare che Donizetti rinuncia il grande pezzo di insieme per concludere la prima parte dell’opera. Il lungo ed articolato terzetto dell’esule è effettivamente di grande intensità musicale è drammatica, nel quale le tre voci si interagiscono in un ensemble ove mirabilmente si fondono le diverse emozioni dei tre personaggi. Nel celebrato “delirio” di Murena abbiamo, invece, un curioso anticipo delle grandi scene femminili di pazzia che Donizetti comporrà nelle opere della maturità. Questa volta tuttavia è un uomo che perde la ragione per il rimorso che lo attanaglia. (…)
Donizetti, in questa scena, ricrea anche, inconsapevolmente, il clima della grande tragedia classica, nella quale non si assiste mai alla morte, che avviene sempre fuori della vista degli spettatori. Nell’allucidazione di Murena assistiamo infatti al supplizio di Settimio nel circo: i terribili momenti dell’innocente messo crudelmente a morte, rivivono nell’afflizione del canto che, tuttavia, conserva un lugubre e dolce languore, sostenuto dagli intermittenti interventi del coro e scandito da un ossessivo accompagnamento in ritmo ternario, nell’ inconsueta e morbida tonalità di mi bemolle minore. Altri momenti dello spartito sono, comunque, degni di citazione: la dolcissima frase del flauto che fa da sottofondo all’incontro tra Argelia e Settimio nell’atto primo e, più avanti, L’allegro agitato in la maggiore che esprime, con l’uso sincopato dell’orchestra, l’emozione del riconoscimento (…)
Da ricordare sono ancora il duetto Murena-Argelia del secondo atto ed, infine, l’aria finale dei soprano, il cui cantabile, nella pastorale tonalità di fa maggiore, è introdotto dal nostalgico e dolente timbro del corno inglese. La ripresa di spartiti come questo, sottoposti, nella loro lunga vita teatrale ottocentesca, a svariate manipolazione, è sempre fonte di problemi di ricostruzione. Accenneremo al dilemma posto dall’aria di congedo del tenore, introdotta dell’autore dopo la “prima” napoletana, in occasione della comparsa dell’ opera alla Scala il 12 luglio 1828. In questa edizione milanese il tenore era sempre Winter e Donizetti scrisse per lui un’aria da eseguirsi prima che Settimio venisse condotto nel circo, e che comincia con le parole “S’io finor, bell’idol mio”. Questo lo si apprende dal libretto pubblicato per la circostanza, la musica però è andata perduta, non essendo mai stata stampata. È giunta invece a noi un’altra versione di questa aria, composta o adattata per il tenore Rubini che interpretò la parte di Settimio in una ripresa napoletana allestita nella stagione invernale di quello stesso 1828. Nel 1840 poi, per la “prima” a Bergamo, Donizetti ricrisse la musica dell’aria per il tenore Bresciano Ignazio Pasini; questa terza versione, fu pubblicata dall’editore Lucca di Milano. L’aria “S’io finor”, con la cabaletta “Si scende alla tomba”, entrambe in la maggiore sono precedute da una bella introduzione strumentale in minore con l’oboe solista. In allegato il libretto dell’opera (Estratti da “l’esule di Roma” di Fernando Battaglia, 1986)