Prima ballerina del Teatro alla Scala di Milano, Antonella Albano ci parla di sé e lancia un messaggio ai giovani in questo momento difficile per tutte le arti, ma ancor più penoso per la danza. Si è distinta sul palcoscenico del Teatro alla Scala, dove arriva giovanissima, dalla Puglia, fortificando il carattere e la tecnica grazie alla passione. L’abbiamo ammirata in TV nel programma di Roberto Bolle Danza con me, in un Passo a Due di Mauro Bigonzetti dal titolo “Violenza”, in cui la sua interpretazione ha saputo dare la colorazione più giusta al tema scelto dal coreografo. Non incarna la tanto agognata (o criticata, a seconda dei contesti) perfezione “robotica” imposta dalle più famose danzatrici russe, ma proprio questo permette alla sua arte di vincere sulla fredda meccanica del movimento e si è conquistata un posto di rilievo nel panorama della grande danza, cimentandosi anche nella coreografia, come è possibile osservare in questo video.
Iniziamo questo dialogo partendo dalla formazione.
Antonella, come sei arrivata alla danza e dove hai iniziato gli studi? Quando sei arrivata alla Scala?
Ho iniziato a fare danza all’età di quattro anni. Non c’è un periodo in cui mi ricordi di aver vissuto senza; ho iniziato in una scuola privata nel mio luogo di nascita, Bari. A undici anni ho conosciuto un’insegnante rumena, la Maestra Silvia, a cui tutt’oggi sono molto legata e che mi ha insegnato tanto; gran parte del mio bagaglio di danzatrice è pieno dei suoi insegnamenti. Dopo due tappe, ciascuna di un anno, nelle prestigiose scuole Princess Grace di Monte-Carlo e dell’Accademia della Scala nel 2000 ho partecipato all’audizione per la Compagnia e ho firmato il mio primo contratto a termine per qualche produzione. Da lì è partita tutta la mia scalata fino ad arrivare a essere oggi Prima ballerina, seguendo tutti gli ‘step’: dal Corpo di Ballo a Solista attraverso audizioni e concorsi, fra i tanti ruoli che mi sono stati affidati.
Che rapporto hai col tuo corpo?
Col mio corpo ho sempre avuto un ottimo rapporto. Forse perché sin da piccola le doti naturali fisiche mi hanno sempre accompagnata, soprattutto la flessibilità, e già a dieci anni frequentavo i corsi di danza tutti i giorni.
Quanto è pesato il senso artistico rispetto alla tecnica, nella tua carriera di danzatrice?
Tanto…Tantissimo. Per me la danza è sempre stata linguaggio. Ciò che differenzia l’arte dalla attività sportiva è il fine, il messaggio. Uno spettacolo, qualsiasi esso sia, nasce per raccontare una storia, un passo; un passo nasce per trasmettere un’emozione e per me è importante non dimenticarlo. Mentre danzo, l’emozione che provo è talmente grande e forte che spero sempre che ogni singola persona del pubblico possa arrivare a viverla insieme a me. Se uno spettatore, seduto in poltrona, riesce a emozionarsi, a piangere con Giulietta mentre trova il suo Romeo esanime o a ridere durante uno scambio di battute di gelosia tra Kitri e Basilio nel primo atto del Don Chisciotte, allora lo spettacolo diventa magia e resta impresso nell’anima. Altrimenti si può parlare solo di esecuzioni, forse incredibili e perfette, ma pur sempre solo esecuzioni.
Quali sono gli insegnamenti più grandi che la danza ti ha dato?
Sicuramente il non arrendersi mai. Il coraggio di esporre i propri pensieri e crederci fino in fondo e il coraggio di sperimentarsi sempre, di non porsi limiti. La danza lo insegna sin da subito, dalla scuola, insieme alla disciplina e senza dubbio sono concetti che ci accompagnano anche nella vita privata. Penso che studiare danza aiuti anche chi, poi, nella vita si ritroverà a intraprendere altre professioni. La danza insegna il rigore e la costanza per arrivare all’ obiettivo. Ogni giorno in sala ballo si ripetono gli stessi passi, le stesse movenze, perché arrivino al fine “spettacolo”.
Cosa rimpiangi di aver lasciato indietro, rispetto alle persone che vivono una vita “normale”?
Sicuramente tutto il calore della vita familiare, dei genitori e degli amici… All’età di sedici anni ho vissuto a Monte-Carlo in Accademia, dormivamo nella stessa struttura perché la scuola è dotata di internato. Mi ricordo che l’allora Direttrice Marika Besobrasova ci teneva tantissimo a insegnarci, oltre alla danza, tutte le regole che essa comporta. Come tenere pulite le sale e tenere sempre ordinate le nostre camere. Inoltre, ospitando ragazzi di tutte le età, mi ricordo che il coprifuoco, ossia l’orario di rientro in accademia, era alle 18.00. Nei periodi estivi eravamo tutti alla sbarra e vedevamo, da questi enormi finestroni, i nostri coetanei che andavano al mare o si tuffavano nella bellissima piscina olimpionica vicino al porto. Questo ormai l’ho lasciato alle spalle ma, devo dire la verità, a me non è pesato, perché ero nel posto in cui volevo essere e stavo facendo quello che ancora amo tanto fare: danzare. Per questo penso che ognuno debba sempre seguire le proprie passioni, perché intraprendere un percorso serio e professionale richiede sacrifici, tanti sacrifici, ma se lo si fa con passione i sacrifici diventano nulla, dato che vengono compensati dalle soddisfazioni.
Cosa può dire ancora, oggi, il balletto classico al pubblico del XXI secolo?
Tanto, sempre. Il balletto classico è storia. E se, come già detto prima, la danza è linguaggio, allora è importante che i ragazzi e i bambini conoscano il Teatro. Che i genitori si ricordino di far conoscere questo meraviglioso mondo fatto di musica, arte, magia, favola e poesia ai loro figli.
Qual è il limite più grande, a tuo giudizio, della danza oggi?
Il limite più grande è che la si veda come attività sportiva, che non la si riconosca più come quella di un tempo, come quella di Fracci, Nureyev, Terabust, Baryshnikov. Spesso sui social si vedono video di ragazzine che fanno a gara a chi fa più pirouettes o a chi alza di più la gamba. Di certo la tecnica è essenziale ma, diciamo così, dovrebbe fare da spalla, da supporto all’interpretazione.
Quanto potrebbe giovare la rivalutazione delle arti nel nostro Paese?
Purtroppo è impossibile non constatare come l’arte sia stata danneggiata da questa situazione che stiamo vivendo. Ma è giusto anche dire che l’arte, nel nostro Paese, già stava soffrendo, soprattutto nel nostro settore. Tanti nostri talenti sono stati costretti, in passato, a emigrare all’estero. Nonostante l’Italia vanti innumerevoli Teatri ed Enti Lirici, ancor prima della pandemia soffrivamo la chiusura di così numerosi Corpi di Ballo. L’arte è importante, è cultura e spero che il prima possibile torni a essere rivalutata, con l’importanza che merita, in modo da poter donare speranza a tutti i futuri Roberto Bolle e Alessandra Ferri, per citare due tra i più grandi artisti italiani.
Cosa ti sentiresti di dire, con gli occhi del presente, a una bambina o a un bambino che volessero intraprendere questo mestiere?
Di farlo con determinazione, di non perdere la fiducia, nonostante le difficoltà e soprattutto in questo momento in cui, con tutte le scuole di danza purtroppo chiuse, si ritrovano a dover studiare nelle loro case con pavimenti non adeguati e attaccati a una sedia al posto della sbarra. Di essere coraggiosi e autentici, di non lasciarsi influenzare dal “voglio essere come”. Mi viene in mente una frase letta da poco di Judy Garland a sua figlia: «Sii la versione originale di te stessa, non la brutta copia di qualcun altro». Beh…Liza Minnelli l’ha presa in parola. Quindi voglio augurare questo, in un mondo ormai pieno di influencer: siate voi stessi e raccontatelo attraverso le vostre passioni.
Se potessi tornare indietro rifaresti le tue scelte?
Tutte. Sono stata fortunata, perché i miei genitori mi hanno sempre lasciata libera di fare le mie scelte. Tante sono state anche sbagliate, ma forse proprio queste mi hanno portata alla resilienza e alla donna che sono oggi.
Una parola per il futuro…
Appena si potrà, tornate a teatro, tornate a danzare, a recitare, a dipingere, a suonare e a cantare, perché l’arte è bellezza e riempie di significato le nostre vite. (Foto Brescia / Amisano – Archivio fotografico Danza con me)