Melodramma in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni, da Camille du Locle e Auguste Mariette. Prima rappresentazione: Il Cairo, Teatro dell’Opera, 24 dicembre 1871.
Subito dopo la prima parigina del Don Carlos, nel marzo del 1867, alquanto deluso, Verdi ritorna a Sant’Agata. È un periodo difficile per il musicista: ancora Parigi ha ricevuto la notizia della morte del padre, e ora, nella quiete della campagna, assiste alla morte del suocero Antonio Barezzi, il padre della prima moglie Margherita, nonché amico e benefattore. Addolorato per la morte dell’uomo che in ogni momento della sua carriera gli è sempre rimasto vicino, Verdi è nuovamente rattristato dall’apprendere che il suo vecchio e tanto maltrattato collaboratore Francesco Maria Piave è stato colpito da una paralisi che lo priva di parola e lo lascia paralizzato. Iin questo triste stato lo sfortunato Piave resterà per otto anni, e Verdi non mancherà di sostenere economicamente la sua famiglia. Un altro duro colpo gli giunge un anno dopo, a ottobre muore a Parigi Gioachino Rossini. Verdì cerca di costituire un comitato di musicisti per comporre una Messa da requiem da eseguire nel primo anniversario della sua morte, ma difficoltà nell’organizzazione fanno saltare l’esecuzione di questa monumentale partitura. Resta però il “Libera me Domine”, la parte assegnata Verdi, brano che verrà riutilizzato nella sua Messa da Requiem nel 1874.
In questo periodo Verdi non è impegnato i nuovi soggetti: segue con attenzione la ripresa della riveduta forza del destino (febbraio 1869) e continuò a lavorare al Don Carlos. Camille Du Locle, il librettista di quest’ultimo lavoro, frattanto, continua a inviare soggetti a Verdi e tenta di convincerlo a ritornare a Parigi. Il Maestro è però categorico: “Io non sono un compositore per Parigi. Non so se ne ho il talento, ma so che le mie idee in fatto d’arte sono ben diverse dalle vostre. Io credo nell’ispirazione.Voialtri alla fattura “. Du Locle non si dà per vinto e continua nella sua opera di persuasione, riuscendo alla fine a portare l’attenzione di Verdi su un soggetto ambientato nell’Antico Egitto, tratto da un racconto delle egittologo francese Auguste Mariette. Nominato bei del khedivè d’Egitto, Mariette propone questo soggetto per un’opera che avrebbe dovuto celebrare l’apertura del Canale di Suez.
Abbastanza illogico, visto che venerdì riceve la trama nella primavera del 1870 e il canale di Suez viene aperto nel ottobre del 1869. Comunque sia, Verdi acconsente a scrivere l’opera che diventerà Aida, ma non accetta il libretto completo di Du Locle, perché non intende comporre in francese; incarica quindi Antonio Ghislanzoni, che ha già collaborato con Verdi nella revisione della Forza del destino. Personalità malleabile, e con Verdi non si potrebbe essere altrimenti, Ghislanzoni redige il libretto sotto il continuo controllo del compositore. La prima dell’Opera, prevista al Teatro dell’Opera del Cairo nel gennaio del 1871, slitta di 11 mesi a causa delle note vicende legate alla guerra franco-prussiana: “La mia opera per il Cairo è finita, ma non si può dare perché vestiario e scenari sono rimasti chiusi a Parigi. Poco male! Ma grave è questa orribile guerra…”.
Aida va in scena con successo la sera del 24 dicembre 1871. Il musicista non è presente, è rimasto in Italia a preparare la prima italiana dell’opera, che avverrà al teatro La Scala l’8 febbraio del 1872. Verdi ci proponi in Aida l’elemento fondamentale della sua drammaturgia teatrale: l’oppressione di un popolo su un altro popolo e l’inconciliabilità tra le passioni umani e le ragioni di Stato, il bene della collettività. I paralleli con il Don Carlos sono piuttosto evidenti: nel Don Carlos il potere manovratore delle azioni dei singoli è il Grande Inquisitore, qui abbiamo Ramfis, altra figura di sacerdote, che manovra, in modo più o meno occulto, le vicende dei protagonisti. Così come Filippo II non può salvare Rodrigo dalla condanna del Grande Inquisitore, così Amneris è impotente contro Ramfis, che ha “creato” Radames e ora lo distrugge.
Le grandi scene della autodafè e del trionfo rendono evidente, nel loro trionfalismo, l’immagine di un potere che è però illusorio, anche se opprime il singolo e la collettività. “Illusorio”, perché il vero potere è molto meno visibile, ma in realtà si mostra attraverso l’ostentazione dell’altro potere: Ramfis, rispetto al Grande Inquisitore, è una figura ancor più incombente, manovra in modo più scoperto le azioni e le situazioni e non a caso la figura del Faraone è pressoché inesistente. Da un punto di vista musicale, al di là degli aspetti spettacolari, sicuramente più evidenti, emerge in quest’opera la ricerca del compositore per ricreare un colore evocatore di un mondo perduto è lontano. Verdi pone altresì molta cura alla messa in scena di Aida, ma è proprio nel colore orchestrale che emergono gli aspetti più affascinanti di quest’opera.
Il musicista riesce a inventare dei suoni che trasmettono una suggestione orientale. Così, da un lato, il potere egizio viene evocato dal suono di sei trombe, tre in la bemolle è il tre in mi, inventate dallo stesso Verdi e ispirate ed antichi bassorilievi, dall’altro contrappone il mondo esotico, verdeggiante, sensuale di Aida, evocato dal clarinetto, con il suo melodiare flessuoso, che è però lontano, e che potremmo definire una “melodia del ricordo “. Anche la musica, dunque, non manca di evidenziare le contrapposizioni dei due Mondi: l’egizio, chiuso in una rigida ritualità, l’etiope, vitale e vissuto nella nostalgia.