Dramma in tre atti. Libretto di Francesco Berio di Salsa da Shakespeare.
Prima rappresentazione: Napoli, Teatro del Fondo, 4 dicembre 1816
Primi interpreti:
Andrea Nozzari (Otello)
Isabella Colbran (Desdemona)
Giuseppe Ciccimarra (Jago)
Giovanni David (Rodrigo)
Michele Benedetti (Elmiro)
Maria Manzi (Emilia)
Gaetano Chizzola (Doge)
? Mollo (Lucio)
Fu per il teatro del Fondo (poiché il teatro San Carlo era bruciato poco prima) che Rossini compose Otello alla fine del 1816, poco meno di un anno dopo Torvaldo.
Il modello teatrale era stato risolutamente snaturato, persino massacrato da un librettista d’occasione, Il marchese Francesco Berio di Salsa, che era del resto, secondo Stendhal, uno spirito fra i più eletti, un uomo di grande cultura, di una gentilezza squisita e il cui salotto accoglieva la migliore società di Italia: Rossini vi si distingueva, Canova vi meditava, la signorina Colbran vi cantava e Lady Morgan vi spettegolava….Francesco Berio aveva insomma ridotto Otello alla storia di un matrimonio segreto tra un valente militare è una giovanissima donna – in altre parole lo stesso soggetto di Elisabetta. (…)
Per incredibile che possa parere, la stampa di Napoli, sempre così reazionaria, così fredda contro le convulsioni del Romanticismo nascente, si felicita delle modifiche apportate al libretto e ringraziò Berio d’aver attenuato “le terribili catastrofi del feroce Shakespeare”. Ma quante belle pagine musicali in questo Otello a lungo occultato dal capolavoro di Verdi! Liaria iniziale di Otello, terribilmente robusta, “Vincemmo o prodi”, ci fa pensare ad una gagliardia da soldatino di piombo, il duettino fra Desdemona e Emilia, “Vorrei che il tuo pensiero”, è commovente come tutti gli incontri rossiniani tra il soprano e contralto. Ammirevole per malinconia il trio Rodrigo, Elmiro, Desdemona, “Ti parli d’amore”. E il quartetto che segue con l’arrivo di Otello, “Incerta l’anima”, è più straziante con questa voce di Desdemona che emerge nella sua solitudine sconvolta.
Il finale del secondo atto, col suo crescendo orchestrale tipicamente rossiniano, è una testimonianza di bravura. Alcuni minuti prima Otello e Rodrigo si erano scontrati in un duo eroico da spacconi che si inerpicavano sugli acuti per meglio sfidarsi… Na è evidente che il terzo atto è il più bello, il più grave, il più grande, capace come è di elevarsi alla tragedia (il che accade per la prima volta in Rossini, eccetto nel secondo finale tragico di Tancredi ). Infine Desdemona si trova confrontata a Otello. “Notte per me funesta” cantano in duetto. Come siamo lontani dal Rossini buffo! Già l’opera romantica viene annunciata. Allo stesso tempo questo Otello porta a compimento la tradizione dell’opera seria con il suo irrealismo a volte stravagante.
Alle rappresentazioni che seguirono, a Roma ea Venezia (in assenza di Rossini) l’epilogo fu giudicato troppo tetro. Fu così rimaneggiato: Otello si china per pugnalare Desdemona. “Sono innocente”, esclama lei.”È vero?”, dice Otello.” Lo giuro “risponde lei. Convinto, l’abbraccia nella più tenera delle riconciliazioni, poi la porta in proscenio dove attaccano un gioioso duetto d’amore preso in prestito senza dubbio da un’altra opera di Rossini. Per preferire un lieto fine ha un finale tragico bisogna senza dubbio essere molto giovani, molto ingenui, o, al contrario, testimoniare una grande maturità e un infinita saggezza. Il pubblico felice di Venezia di Roma era certamente molto ingenuo e molto giovane.
E che dire del tenore Tacchinardi, quando interpretò il ruolo d’Otello a Firenze nel 1819? A beneficio del suo pubblico, fece mettere sul libretto le seguenti indicazioni: “Si potrebbe essere tentati di chiedersi perché Otello non apparirà sulla scena vestito da Moro, così come lo richiede il testo inglese, per ragioni a noi sconosciute. Ma dal momento che sembra improbabile che un amorevole fanciulla corteggiata da attraenti giovanotti possa nutrire una passione per un Moro, il cui aspetto non può essere considerato che spaventoso è orribile, Il signor Tacchinardi ha deciso di assumere delle sembianze meno ripugnanti e che ci sembrano più plausibili poiché, dopo tutto, non tutti i figli dell’Africa sono affiliati da un viso nero “. Capricci del genere erano tipici delle grandi vedettes dell’opera seria. Ill pubblico non si preoccupava eccessivamente della verosimiglianza drammatica e l’arte lirica, in fin dei conti, non ne soffriva troppo. (da Frédéric Vitoux, Gioachino Rossini, ediz.Mazarine, 1982)