Tragédie lyrique in tre atti su libretto di Charles Brifaut e Armand -Michel Dielafoy, da Voltaire. Prima rappresentazione: Parigi, Opéra, 22 dicembre 1819.
Atto primo. Nel tempio di Efeso, durante l’invocazione rituale a Diana, lo ierofante (basso) annuncia imminente la riconciliazione dei re Cassandre (tenore) e Antigone (basso), coinvolti (sebbene Cassandre non direttamente) nell’uccisione di Alessandro Magno. Come pegno dell’alleanza, Antigone vorrebbe in moglie da Cassandre la schiava Aménais, innamorata corrisposta di Cassandre stesso. Antigone si è intanto accorto che Aménais è in realtà Olimpie (soprano), figlia creduta morta di Alessandro Magno. Statira (soprano), la vedova di Alessandro, nascosta sotto le finte spoglie della sacerdotessa Arzane, rifiuta l’incarico di benedire l’unione tra Aménais e Cassandre, poiché ritiene quest’ultimo l’assassino di suo marito. Antigone crede allora di aver trovato in lei una complice.
Atto secondo. Nel bosco sacro viene compiuto un sacrificio a Diana. Statira rivela la propria identità e quella della figlia Olimpie, mentre Cassandre si difende dalle accuse, rivendicando di aver salvato la vita a Olimpie. Statira ripudia i due amanti, sostenuta da Antigone, che ha radunato le sue truppe per combattere Cassandre.
Atto terzo. Olimpie è ancora innamorata di Cassandre, che compare nel tempio ma fugacemente, perché l’esercito dei suoi fedeli è pronto allo scontro con le truppe di Antigone. Nel conflitto quest’ultimo viene ferito mortalmente. Prima di spirare maledice la dea Diana e confessa la sua responsabilità nell’omicidio di Alessandro. Olimpie potrà dunque sposare Cassandre, vincitore innocente, con la benedizione della madre Statira.
Nella tragedia di Voltaire Olimpie terminava con la morte della giovane, il suicidio di Statira e l’apparizione di Alessandro, che le accoglieva fra gli immortali.L’elemento drammatico è drasticamente ridotto nella versione spontiniana.
Con Olimpie Spontini avrebbe fatto, secondo il suo stesso parere, non uno ma tre passi avanti. È indubbio che questa partitura presenta un accuratezza di scrittura insolita. In essa è l’artista maturo e cosciente che si rivela, nel pieno dominio di sé e della materia adoperata. È lavorando intorno a Olimpie che Spontini annota: “Questa partitura, per l’importanza e il genere del soggetto, deve rispondere a una concezione più elevata che non quella della Vestale e del Cortez”; e per non rimanere inferiore al compito assegnatosi, spende anni di lavoro paziente appassionato intorno all’opera prediletta. I risultati furono in tutto proporzionati allo sforzo compiuto dal musicista per portare la sua espressione all’altezza di quello “stile tragico” che fu la costanze e concreta aspirazione di tutta la sua vita.
Il linguaggio di Spontini conserva infatti nel Olimpie una nobiltà e una dignità pressoché infallibili; nulla di abbandonato appare in esso. Spariti quei procedimenti meccanici e convenzionali che altre volte erano stati oggetto di critica, la melodia si spiega in nuovo curve, l’armonia si arricchisce di nuove colorazioni accentuando enormemente rispetto alle opere precedenti il senso del cromatismo, la partitura raggiunge un equilibrio e una trasparenza esemplari nonostante l’impiego di massa e sonore – voci e strumenti – spesso voluminose. Eppure Olimpie non tradisce la lentezza e le difficoltà attraverso le quali venne maturandosi e fu realizzata, che anzi Spontini ritrovava in essa e rafforzava quella unità di disegno, quella (per dirla con Wagner) “verità di espressione drammatica”, che già nella Vestale avevano rivelato la vera, la grande forza della sua arte. Già ad un esame esterno possiamo notare come nella abbondante materia dell’opera faccia riscontro un numero relativamente esiguo di pezzi: ciò che denota la tendenza del musicista ad ampliare il taglio dei pezzi, a rendere questi capaci di accogliere, nella loro unità formale ed estetica, sempre più complessi elementi drammatici. Né meno evidente è la tendenza del musicista ad avvicinare tra loro i vari pezzi evitando le parti di transizione, le parti musicalmente non organizzate o, quantomeno, limitandone lo sviluppo.
In senso unitario agisce altresì la concezione della tragedia classica, di cui nell’Olimpie è dato scorgere, pure attraverso gli accomodamenti e le storpiature varie. Guardiamo ad esempio l’unità di luogo. Nell’Olimpie la scena cambia ad ogni atto, quindi (lasciando da parte la scena dell’incoronazione di Statira, specie di apoteosi lirica aggiunta il dramma) tre volte in tutta l’opera. Ebbene, noi vediamo in effetti che tali cambiamenti non sono determinati da una reale necessità; che essi non hanno altro scopo se non quello di offrire allo spettatore una visione tre volte variata della medesima scena; che l’unità di luogo risulta insomma, nel suo significato ideale, pienamente raggiunta. Tanto è vero che si potrebbe immaginare per una scena unica – il tempio di Diana, la piazza di Efeso – e là rappresentare l’intera opera senza inconvenienti di sorta.
Non meno che alla regola delle unità di luogo, l’Olimpie risulta obbediente a quella delle unità di tempo. Anche qui ragioni di esclusivo ordine pratico determinano la divisione dell’opera in tre atti. Per il resto, il sipario potrebbe alzarsi all’inizio dell’opera per chiudersi solamente, con rigorosa successione di eventi, alla morte di Antigono. Meno salda riesce invece l’unità di azione (non l’unità empirica degli avvenimenti, ma l’unità spirituale, la logica interna di essi e la “necessità” della loro determinazione), e ciò non solo nel rifacimento dell’opera ma anche nella prima stesura, in cui la critica del tempo ravvisava oscurità ed equivoci e soprattutto “la duplicità dell’azione che attenua l’interesse dividendolo tra Olimpie e Statira”.
Un discorso a parte merita il coro, restituito qui al suo carattere e alla sua funzione originaria di “personaggio ideale” raramente attore, ma sempre intimamente partecipe, con la sua commozione, con la sua pietà, col suo timore, con il suo terrore, a quanto avviene sulla scena. Ciò è tanto vero che noi possiamo persino, allorché il coro interviene, ignorare quali siano le persone che lo compongono, se sacerdoti o iniziati, popolo o guerrieri, bastando il più delle volte alla comprensione dei fatti e del loro significato drammatico l’indicazione generica del suo intervento. Né sfugga il valore del fatto che nelle nell’Olimpie il coro si trova presente sulla scena, quasi, appunto, spettatore degli avvenimenti, in una grandissima parte dell’opera.
Personaggio potentemente individuato è invece quello di Statira, la vera protagonista del dramma. “I principali caratteri – ha scritto Philipp Spitta dell’Olimpie – sono ben definiti e il tono assegnato a ciascuno è intelligentemente mantenuto col dovuto risalto. Le prime entrate, che segnano sempre il momento più importante dell’opera per fissare i caratteri di un personaggio, sono sempre significative. A riprova è interessante osservare la natura affatto differente della musica all’entrata di Olimpie e di Statira. Questa – il principale carattere dell’opera – non ha rivali se non nella Medea di Cherubini e forse dell’Armida di Gluck. È una donna afflitta sotto l’orribile peso delle memorie e che arde di vendetta., ma essa rimane pur sempre da capo a piedi una regina e un eroina che deve riconoscersi in tutto degna di Alessandro Magno “.
“Intelligentemente mantenuto” è pure in tutta l’opera il carattere di Olimpie, quale si rivela fin dalle prime sue battute. Si pensa alla Beatrice del “Sogno” dannunziano: “Ella sembra scaturita da tutto il dolore della nostra casa, come una vena d’acqua da una montagna travagliata. È trasparente”.
Tra l’odio di Statira è l’amore di Olimpie, vive, in continuo stato di sospetto è di agitazione, il personaggio di Cassandro, dominato da quella specie di complesso di inferiorità che costituisce per lui la calunniosa accusa di regicidio. La figura di Cassandro manca perciò di quella sicurezza e spavalderia che caratterizza gli amanti-guerrieri protagonisti maschili delle altre due tragedie spontiniane: Licinio e CorteZ. In compenso (e ciò può essere psicologicamente esatto) la sua reazione, allorchè si manifesta, si spinge ben più a fondo, sino a provocare la morte del rivale.Il personaggio di Antigono risulta vigorosamente disegnato, specialmente nella scena della morte che ne rivela con potente teatralità il malefico genio. Terzo della solenne teoria dei pontefici spontiniani, il Gerofante, che dai precedenti – il “prete crudele” della Vestale, il “ministro inumano” del Cortez – distingue una natura più benigna e un un più paterno esercizio dei propri poteri. (Estratto da “Spontini” di Paolo Fragapane – Sansoni Editore, 1983)