Jules Massenet (1842 – 1912): “Sapho” (1897)

Pièce lyrique in cinque atti su libretto di Henri Cain e di Arthur Bernède, dal romanzo omonimo di Alphonse Daudet. Prima rappresentazione: Parigi, Opéra-Comique, 27 novembre 1897.
Quest’opera può essere considerata un omaggio a Alphonse Daudet, al quale Massenet era legato da una lunghissima e sincera amicizia. Quando nel 1884 era stato pubblicato il romanzo Sapho e l’anno dopo era stata data in teatro una sua rielaborazione come pièce teatrale, Massenet aveva provato un forte interesse per questo personaggio desiderando ardentemente, come era avvenuto per Manon, di metterlo in scena, ma varie circostanze ne avevano ritardato l’attuazio-ne. Il compositore francese riprese il progetto quando venne a conoscenza della grave malattia che aveva colpito Daudet e lo completò in pochi mesi, da maggio a dicembre del 1896. Alla prima rappresentazione avvenuta il 27 novembre 1897 fu presente lo scrittore che il giorno dopo inviò a Massenet un biglietto nel quale si legge: Io sono felice del suo grande successo. Con Massenet e Bizet non omnis moriar. Lo scrittore francese morì alcuni mesi dopo e al suo funerale, celebrato solennemente nella chiesa di Sainte-Clotilde, dopo il Dies irae, fu eseguita La solitude di Sapho, entr’acte del quinto atto.
Pur conservando una certa fedeltà al testo del romanzo, non sfuggono alcune differenze tra cui la più importante consiste nella collocazione temporale della storia; nel romanzo, che si svolge secondo tempi e rapporti reali, manca quella nostalgia del passato evidengte già nel primo atto quando Jean esordisce ricordando la Provenza, sua terra natia, a differenza del protagonista del romanzo che manifesta anzi una vera repulsione per essa. Proprio questo ritorno continuo della memoria fa sì che la realtà scorra o in senso retrospettivo verso il passato o avanzi verso il futuro.

La scena si apre su un ballo mascherato in casa dello scultore Caoudal dove il giovane provenzale Jean Gaussin incontra la modella Fanny Legrand conosciuta come Sapho. I due si innamorano immediatamente e lasciano la festa e vanno a vivere a casa di Jean dove un giorno arrivano i genitori del ragazzo Césaire e Divonne insieme alla nipote Irène. Tuttavia non saranno loro a contrastare questa relazione quanto Caoudal e i suoi amici incontrati a Ville-d’Avray; questi informano Jean  del turbolento passato di Fanny al punto da indurlo a lasciare la donna dopo una violenta lite. La giovane non si rassegna e raggiunge Jean ad Avignone supplicandolo inutilmente di ritornare con lei e, dopo aver fatto ritorno a Ville-d’Avray, decide di rinunciare al suo amore e alla sua vita passata per dedicarsi al figlio nato da una sua relazione con un falsario. Jean, però, pentito, la raggiunge, ma è troppo tardi perché la donna non vuole più tornare con lui. Di questa opera esistono due versioni: la prima rappresentata all’Opéra-Comique il 27 novembre 1897 con Emma Calvé (Fanny Legrand “Sapho”), e Julia Guiraudon (Irène), Charlotte Wyns (Divonne), Julien Lepestre (Jean Gaussin), Andrée Gresse (Césaire) diretti da Jules Danbé, e una seconda andata in scena il 22 gennaio 1909 sempre all’Opéra-Comique con Marguerite Carré. In quest’ultima versione Massenet, su richiesta di Albert Carré, aggiunse un nuovo atto, detto tableau des lettres, scritto in parte ex-novo e spostando i brani di Jean (Sapho! Quelle infamie!) e di Fanny (Retourne chez le tiens!). Unanimi furono i consensi della stampa per la prima versione; Arthur Pougin su «Le Ménestrel» scrisse:
“Non ho potuto, in questa fredda analisi, fare risaltare tutte le qualità che caratterizzano la nuova opera del signor Massenet: la preoccupazione della verità della declamazione, il cui accento è sempre pieno di giustezza e di sobrietà; la franchezza e l’eleganza dell’armonia, così come l’elasticità e la grazia delle modulazioni; la ricerca costante del ritmo, che è la base stessa del discorso melodico; infine la cura riservata alla strumentazione, che ci offre un’orchestra sempre sonora senza rigidità, sempre armoniosa senza pretesa, sempre delicata, elegante, fertile di sorprese, e scrive con un’abilità, una conoscenza e una distribuzione dei timbri che pochi artisti sarebbero capaci di uguagliare. Ma è soprattutto nel suo insieme che bisogna apprezzare l’opera, e questo insieme che colpirà e sedurrà il pubblico”.
Positivo fu anche il giudizio del compositore Alfred Bruneau, già allievo di Massenet al Conservatorio, che, nella sua recensione uscita su «Le Figaro», affermò:
Si conosce l’elasticità del signor Massenet a trasformarsi interamente rimanendo se stesso. Credevamo di non ignorare nessuna delle facce del suo talento e ci sbagliavamo, poiché la sua ultima partitura, sulla cui firma non ci si potrebbe ingannare per un minuto, non assomiglia per nulla alla sue maggiori. Ho parlato del sistema vocale e strumentale scelto, questa volta, dal compositore. Di una chiarezza perfetta, non permettendo alcun equivoco, è applicato con rigore straordinario, una volontà sorprendente. Il canto resta il padrone sovrano, l’unico dispensatore dell’effetto cercato e trovato, e l’orche-stra, sua umile schiava, lo accompagna, lo sostiene, senza avere mai un ruolo preponderante o attivo. Il quartetto d’archi, la maggior parte del tempo, è protagonista e, dal suo fondo armonico, sgorga qua e là qualche zampillo del flauto, dell’oboe, del fagotto”.
L’attenzione riservata da Massenet al canto, notata da Bruneau, caratterizza già il brevissimo preludio strutturato interamente sull’appassionato tema della protagonista e, se la musica è certamente più vivace nella rappresentazione della festa da Caoudal sulla quale si apre il primo atto, un acceso lirismo, intriso di malinconia, ritorna nell’aria di Jean, Qu’il est loin mon pays, caratterizzata da ampie aperture melodiche che permettono di coprire l’ottava nel giro di poche battute.
Il secondo atto si apre con la provenzale Chanson de Magali, intonata da Jean e dal padre Césaire e lasciata da Massenet nella lingua originale, a differenza di quanto fece Gounod che la tradusse in francese. Tutto l’atto secondo disegna un ambiente piccolo borghese e trova il suo punto culminante nel duetto con Fanny che, a un certo punto, intona la Chanson de Magali. Un altro duetto tra Jean e Fanny apre il terzo atto, uno splendido quadro di vita bohemiènne che trova uno dei suoi momenti più qualificanti nel terzetto dei suonatori ambulanti. Un quadro più intimistico è, invece, dipinto nella seconda scena dell’atto, una pagina che sembra tratta direttamente dal Werther nella quale Jean, leggendo alcune lettere, evoca nostalgicamente la Provenza. Echi di brani precedentemente ascoltati, come la ripresa della Chanson de Magali e di Si j’avais un jour, contraddistinguono la parte inziale del quarto atto che si conclude con alcune delle pagine più intensamente liriche della produzione di Massenet, tra cui spicca il cantabile Pendant un an je fus ta femme, pieno di sentimento.
Introdotto da una breve pagina sinfonica, chiamata  Solitude dall’epigrafe, il cui carattere malinconico è reso perfettamente dalla raffinata scrittura orchestrale, il quinto atto è dominato dall’ultimo duetto tra Jean e Sapho con un diafano violino solista che scava nell’intimo dei protagonisti.