“Un ballo in maschera” inaugura la stagione del Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2020-2021
“UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma, basato sul libretto di Augustin Eugène Scribe, Gustave III, ou Le bal masqué, per l’opera di Daniel François Esprit Auber
Musica Giuseppe Verdi
Riccardo MICHAEL FABIANO
Amelia ANNA PIROZZI
Renato ARTUR RUCINSKI
Ulrica DANIELA BARCELLONA
Oscar ELENA SANCHO PEREG
Silvano TOMEU BIBILONI
Samuel DANIEL GIULIANINI
Tom GODERDZI JANELIDZA
Un giudice / Un servo di Amelia JORGE RODRÍGUEZ-NORTON
Orquesta y Coro Titulares del Teatro Real
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Massimo Checchetto
Costumi Carlos Tieppo
Luci Fabio Barettin
Coreografia Silvia Giordano
Produzione del Teatro La Fenice di Venezia; cooperazione tra il Teatro Real di Madrid e il Teatro de la Maestranza di Siviglia
Madrid, 1. ottobre 2020

Tornare alla “normalità” (qualunque cosa voglia dire questa parola) è molto difficile per un teatro, specialmente in occasione dell’inaugurazione di stagione e in prossimità di un nuovo, ancorché parziale, confinamento sanitario della regione in cui si trova. Il Teatro Real di Madrid si è impegnato moltissimo per trarre in salvo Un ballo in maschera, coinvolgendo i responsabili della produzione originale affinché adattassero la regia alle nuove disposizioni si sicurezza. Quindici recite, un doppio cast (ma i soprani ad alternarsi nel ruolo di Amelia sono quattro), sedici ballerini sono i principali argomenti di un investimento notevole, ripagato dall’interesse e dall’affluenza del pubblico (per quanto dimezzato nel numero dalle nuove regole). Nicola Luisotti è al suo sesto titolo verdiano al Teatro Real da quando è Direttore associato (2017) e di Un ballo in maschera fa risaltare soprattutto i colori scuri e le trame inquietanti (più di quelli lirici, predilige i temi di Ulrica o quelli dei congiurati), anche per mezzo di tempi piuttosto rilassati, che gli permettono di marcare gli accenti (con esiti apprezzabili, come nel concertato finale del primo quadro del I atto o nel finale dell’opera). Dell’Orquesta Titular del Teatro Real va ricordata l’ottima prestazione della banda e del complesso sul palco, sempre nell’ultimo quadro del III atto. La compagnia vocale dimostra buon affiatamento e concorre con la sua professionalità alla riuscita della recita. Il protagonista è il giovane tenore americano di ascendenza italiana Michael Fabiano, una voce certamente interessante, anche se forse non ancora del tutto pronta ad affrontare il difficile ruolo di Riccardo. Pluripremiato negli Stati Uniti nel 2014, al Real esordì nei Due Foscari del 2016, lasciando buone impressioni. Anche la prova attuale è molto apprezzata dal pubblico madrileno, soprattutto per il garbo nel porgere, il timbro chiaro e lo squillo. Va detto che nella tessitura alta gli acuti sono coperti, ma il timbro si sbianca, anche perché il cantante è costretto a forzare una natura vocale più predisposta ai ruoli lirici. Spesso Fabiano enfatizza il fraseggio (anziché affinarlo), con colpi di glottide e gridolini di dubbio gusto, sempre allo scopo di rendere più drammatica un’emissione vocale nata evidentemente per ruoli meno spinti. Ricorre invece al portamento per sentirsi più a suo agio Artur Rucinski, il baritono polacco che interpreta Renato, molto applaudito al termine di «Eri tu che macchiavi quell’anima». Nel corso degli anni la voce di questo cantante si è un po’ schiarita e a volte risuona chioccia, ma la tecnica è generalmente buona. Domina sicuramente su tutti, quanto a mezzi tecnici, il soprano Anna Pirozzi, molto legata alla parte di Amelia, giacché la cantò sin dai suoi esordi (per esempio al Teatro Regio di Torino nell’estate del 2012); nella recita madrilena si registra qualche piccola esitazione, che ha influito sul grado di coinvolgimento emotivo, soprattutto durante il I atto. «Morrò – ma prima in grazia» del III è l’aria in cui il soprano risulta più naturale ed espressivo. Daniela Barcellona è un’Ulrica di grande esperienza, molto abile nelle parti d’insieme dell’unico quadro in cui appare; per il resto, l’emissione vocale è frammentata a seconda del registro, e anche rimpicciolita. Perfetta resa vocale della frivolezza è l’Oscar di Elena Sancho Pereg; chiaro nella pronuncia e nelle intenzioni il Silvano di Tomeu Bibiloni (a differenza del Giudice di Jorge Rodríguez-Norton); molto corretti e convincenti i due congiurati Samuel e Tom, rispettivamente interpretati da Daniel Giulianini e Goderdzi Janelidze. Il libretto di Un ballo in maschera è sempre bistrattato, anche dai cantanti italiani: la Barcellona canta la versione vulgata «senza librar la folgore» (anziché il corretto libar, aferesi da allibare, ossia ‘scagliare’), mentre non si capisce perché Fabiano sostituisca «Renato rivedrà l’Inghilterra» con la sua terra (forse in tempi di Brexit quel nome geografico va bandito anche dal melodramma …).
Lo spettacolo di Gianmario Aliverta si avvia sin dal preludio orchestrale, allorché si assiste alla confezione di una gigantesca bandiera statunitense da parte di donne di colore, vessate dagli scherani del Giudice. La messa in scena pretende infatti di denunciare il razzismo americano con un’ambientazione alla seconda metà dell’Ottocento, dunque a Guerra di secessione ormai conclusa (accurati nelle policromie i costumi di Carlos Tieppo). L’elemento afro-americano è offerto dai danzatori, che animano l’antro di Ulrica (le donne abbigliate come santeras caraibiche, in preda a violenta trance; gli uomini come revenants evocati dalla negromante) e ovviamente il ballo in maschera finale. La coreografia di Silvia Giordano è funzionale all’idea registica, e offre il meglio proprio nel quadro finale. Sia il regista sia il direttore, però, concentrano la loro attenzione sul II atto; è comprensibile che la scena del celebre duetto d’amore attragga più del composito I atto, in cui è difficile reperire un solo elemento scenico su cui fare perno. Sul piano musicale la resa di Luisotti è molto buona, mentre su quello scenico si assiste a un errore abbastanza clamoroso, di collocazione e di distribuzione. L’«orrido campo» di Aliverta è infatti una rupe semovente al centro della scena, tutta buia; i congiurati che sopraggiungono nel finale sono i membri del Ku Klux Klan, armati di fiaccole e croci ardenti. Se l’intenzione era evidenziare e denunciare il razzismo presente in terra americana (tema certamente molto attuale e presente nella stessa opera), l’applicazione a questa scena è del tutto sbagliata: Samuel e Tom non vanno a caccia «dell’immondo | sangue dei negri», ma del governatore di Boston, un bianco che considerano un tiranno, responsabile di rappresaglie e «tombe infelici». Inoltre, la denuncia sociale che il regista propone cozza vistosamente con lo sviluppo scenico, giacché poco dopo l’ingresso del KKK il tono generale si fa burlesco e perde ogni drammaticità, tranne che per Amelia e Renato, in quel momento comunque lontanissimi da ogni rivendicazione etnica (come al solito, basterebbe leggere il libretto: «Ve’ la tragedia mutò in commedia | piacevolissima» …). Il KKK, collocato nel II atto, è fuori luogo e l’effetto della provocazione risulta dimidiato e ambiguo; è la tipica situazione in cui il regista ha un’idea e vuole imporla a ogni costo. Ma la drammaturgia elaborata da Verdi in mezzo a tante difficoltà e vessazioni della censura conta davvero così poco da poterla annullare e sostituirla con altra di dubbia efficacia?   Fotografie Javier del Real © Teatro Real de Madrid