Opera in due atti su libretto di Langston Hughes dall’omonimo dramma di Elmer Rice. Patricia Racette (Anna Maurrant), Mary Bevan (Rose Maurrant), Paulo Szot (Paul Maurrant), Matteo Artuñedo (Willie Maurrant), Geoffrey Dolton (Abraham Kaplan), Joel Prieto (Sam Kaplan), Veronica Polo (Shirley Kaplan), Gerardo Bullon (George Jones), Lucy Schaufer (Emma Jones), Sarah-Marie Maxwell (Mae Jones – First Nanny), Javier Ramos (Vincent Jones), Jeni Bern (Greta Fiorentino), Michael J. Scott (Lippo Fiorentino), Scott Wilde (Carl Olsen), Harriet Williams (Olga Olsen), Tyler Clarke (Daniel Buchanan), Eric Greene (Henry Davis), Irene Caja (Mrs. Davis), Montse Gabriel (Mrs. Hildebrand), Marta Fontanals-Simmons (Jennie Hildebrand), Diego Poch (Charlie Hildebrand), Clara Barrios (Mary Hildebrand), Richard Burkhard (Harry Easter), Dominic Lamb (Dick McGann), Kwenya Carreira (Steve Sankey), Laurell Dougall (Second nanny), Jonathan D. Mellor (Oficial Murphy), Ángel Burgos (Doctor Wilson). Coro y Orchestra Titulares del Teatro Real, Pequeños y Jovenes Cantores de la JORCAM, Ana González (maestro del coro di voci bianche), Andrés Máspero (maestro del coro), Tim Murray (direttore), Dick Bird (scene e costumi); James Farncomb (luci), Arthur Pita (coreografie). Registrazione: Teatro Real, Madrid, febbraio 2018. 1 DVD BelAir classiques
La diaspora degli intellettuali mittel-europei di religione ebraica verso gli Stati Uniti è una costante già a partire dall’inizio degli anni ’30e va crescendo nel corso del decennio mentre le ombre della follia nazi-fascista si allungano sempre più sull’Europa. Tra gli illustri esuli è il compositore Kurt Weill che nel 1935 raggiunge l’America con il pretesto di sovrintendere alla messa in scena di un proprio lavoro e che da quel giorno più non tornerà in Germania. Rispetto ad altri musicisti europei Weill trovava in America un terreno adatto alle proprie sperimentazioni estetiche. Lontano dallo zelo rivoluzionario dei compositori seriali che si erano posti sulla via indicata da Arnold Schönberg e dal dal sinfonismo decadente di un Korngold, Weill aveva sviluppato una propria via alla modernità, forte delle suggestioni della cultura musicale d’oltreoceano: dal Musical e dal Jazz. Non sorprende dunque che Weill trovi facilmente posto nella scena musicale americana con una fortunata serie di lavori che si susseguono dal 1936 al 1941 anno in cui si data quel “Lady in the Dark” su libretto di Ira Gershwin forse il risultato più compiuto di questa periodo. Fase nella quale comincia a maturare l’idea di un lavoro più ambizioso che unisca le forme del musical americano con quelle della grande tradizione lirica europea; Weill profondamente colpito dal dramma “Street scene” dello scrittore e giornalista Elmer Rice, spietata rappresentazione del sub-proletariato newyorkese che permetteva a Weill di ritornare all’idea di un teatro socialmente impegnato già presente nelle esperienze berlinesi al fianco di Bertolt Brecht. Convincere Rice non fu facile e solo nel 1946 lo scrittore concesse l’uso del suo lavoro. Il dramma in prosa venne trasformato in libretto da Langston Hughes poeta di spicco della cosiddetta Harlem Renaissance. Il 9 gennaio 1947 all’Adelphi Teather l’opera vide finalmente la luce.
“Street scene” è il lavoro di sintesi dell’intera vita artistica di Weill.
Opera americana ma sempre rivista attraverso la sensibilità di un immigrato di lusso che può guardare in qualche modo dall’esterno il mondo che descrive, coglierne le stridenti brutalità con una forza forse impossibile di chi in quel mondo è cresciuto. “Street scene” è la negazione del sogno americano, è l’antitesi dell’ottimismo superficiale con cui gli Stati Uniti vittoriosi nel secondo conflitto mondiale guardavano all’avvenire. Iimpietoso spaccato di una realtà minuta cui la vita poco ha da concedere, che si trascina nelle afose atmosfere di periferie, in cui qualunque slancio e destinato a perdersi. La tragedia scuote per un attimo questa monotonia, senza però cambiarla tornando poi rapidamente tutto come prima, in un battito di ciglia. La musica di Weill descrive magistralmente l’atmosfera opprimente del vicolo, il cicaleccio continuo e maldicente di questo mondo piccolo, così simile nonostante l’apparente distanza da quello descritto da Benjamin Britten in “Peter Grimes” in cui la stessa tragedia semplicemente capita, imprevista, senza sussulti che scuotano il torpore quotidiano.
Weill smuove con pochi tratti questa piatta distesa. Il lunghissimo primo atto è praticamente privo di azione, ma introduce all’ambiente del vicolo e ai suoi abitanti ai quali è concesso un momento di presentazione, quasi moderne cavatine in cui l’indistinta folla ritrova la sua individualità singola o collettiva – i nuclei famigliari quasi tutti di immigrati europei – per poi disperdersi subito nella massa. Un lavoro forse non così immediato per il pubblico tradizionale dell’opera europea ma assolutamente da conoscere per comprendere una delle tane anime di quel mosaico così affascinante e sfuggente che è il teatro musicale del Novecento.
Registrato al Teatro Real di Madrid l’allestimento di John Fulljames coglie alla perfezione tutti i caratteri dell’opera. La scena è una scabra struttura di praticabili metallici che definiscono gli appartamenti affacciati sulla strada ma che al contempo li chiudono in una morsa implacabile. Una struttura che si fa carcere e labirinto capace di imprigionare non solo i corpi ma le anime e le menti di coloro che la abitano. Struttura che si apre solo un istante – mostrando le luci della città circostante – solo per gli slanci dei giovani Sam e Rose o per le illusioni di Mae e Dick per poi richiudersi di nuovo su tutto e tutti. La staticità della scena è compensata dal dinamismo dei movimenti e dall’impeccabile caratterizzazione di tutti i numerosissimi personaggi.
Guidati, con senso dello stile e apprezzabile equilibrio formale, da Tim Murray i complessi del Teatro Real di Madrid, riescono a far proprie le peculiarità di uno stile non così naturale per orchestre legate al repertorio operistico tradizionale.
La scrittura vocale di Weill, sul taglio ibrido della composizione, che prevede momenti prettamente operistici come impostazione e difficoltà uniti però a una teatralità tipica del musical. In tal senso diventa difficile valutare le singole prestazioni con il metro abitualmente applicato al canto lirico ma al contempo non si può prescindere da esso almeno per i ruoli principali.
La protagonista Anna Maurrant è affidata a Patricia Racette cantante nota soprattutto in campo pucciniano e verista. La voce è solida, specie nei centri molto ricchi di suono e l’interprete intensa e drammatica. La lunga carriera non è però passate indolore, il settore acuto appare afflitto da un vibrato poco controllato. Il marito Frank è il baritono brasiliano Paulo Szot voce robusta anche se un po’ grezza, bisogna per altro riconoscere che il ruolo richede una esplicita brutalità. Alla loro figlia Rose sono affidate le pagine musicalmente più ispirate della partitura, è una fortuna che ad affrontarla ci sia un soprano di raffinata estrazione mozartiana e barocca come Mary Bevan voce di radioso lirismo, linea di canto impeccabile, accento sincero e accorato. Al suo fianco il tenero Sam Kaplan è risolto con bello slancio lirico da Joel Prieto.
Eric Greene presta la sua calda voce baritonale non priva di suggestioni gospel – non a caso è apprezzato interprete di “Porgy and Bess” – è un Henry Davis di forte rilievo . Lippo Fiorentino, caricatura dell’immigrato italiano canterino e sopra le righe, richiederebbe per funzionare nel suo intento parodistico di una franchezza tenorile di gusto tutto italiano che non troviamo nel timbro anonimo di Michael J. Scott. Tutti i numerosissimi personaggi minori sono splendidamente interpretati sul piano teatrale, a scapito di una qualità vocale non sempre impeccabile ma in fondo forse essa non è neppure così essenziale per rendere questo “monotono” descritto da Weill.