La prima de I capricci di Callot di Gian Francesco Malipiero (Opera in un Prologo e tre atti, su libretto dello stesso compositore) ebbe luogo, sotto la direzione di Mario Rossi, al Teatro dell’Opera di Roma il 24 ottobre 1942, pochi mesi dopo che l’autore ne aveva terminato la partitura, inaugurando una stagione di opere contemporanee che suscitò allo stesso tempo, interesse, stupore e, in certi ambienti, una certa indignazione.
Vale la pena di ricordare, lodandola, quell’iniziativa, che ebbe il suo “pendant” in un’analoga stagione della Scala, per sottolineare l’audacia dei promotori, e fra i primi Tullio Serafin, che nel periodo di maggiore euforia dell’ asse Roma-Berlino, porto a conoscenza del pubblico italiano, oltre a quella di Malipiero, un’opera che gli ideologi del nazismo consideravano “corruttrice del buon costume musicale” e perciò indegna di apparire sulle scene del TerzoReich: parliamo del Wozzeck di Alban Berg, oggi ritenuto un “classico” della produzione melodrammatica del 900.
Con I capricci di Callot, Malipiero ritornava, dopo quella che egli stesso aveva definito la parentesi lirica costruita costituita dall’incontro con il Shakespeare “romano” di Giulio Cesare e di Antonio e Cleopatra, al mondo autentico dei suoi fantasmi, che fin dalla giovinezza avevano animato la sua fantasia creatrice, dalla Trilogia del Orfeide a quella del Mistero di Venezia , al Torneo notturno, nel quale essa trova la sua più felice e completa espressione. Le ventiquattro incisioni dei Balli di Sfessania del seicentesco e Jacques Callot lo avevano da tempo attratto per la loro essenza di ritmi musicali, per trasformarlo in spettacolo teatrale, in chiave operistica anziché ballettistica come non primo tempo sembrava che gli avessi pensato. con questa premessa, si può giustificare in qualche modo l’impressione che ebbe il pianista e direttore di Ferdinando Ballo (1906-1959), di una preesistenza della musica alla trama del libretto, dello stesso compositore, sotto forma di episodi, appunti, illuminazioni, immagini musicali, che nello svolgimento dell’opera rivelano, nonostante l’ingegnosità del montaggio, una decisa origine ed essenza autonoma.
Nell’ampio e policromo quadro di un carnevale barocco romano, fra maschere e ciarlatani, cortei e baruffe, le due figure degli amanti non assumono funzione di protagonisti, anche se dalla loro vicenda umana si può ricavare, nonostante una catarsi apparentemente positiva, il nucleo che è alla base della pessimistica concezione ma Liberiana del mondo: l’uomo è costretto a fingere quello che non è, deve travestirsi, mascherarsi se vuole raggiungere la metà desiderata. Nei rapporti tra Giacinta e Giglio emerge la vena lirica e patetica dell’opera, che crea momenti di sottile commozione nei quali il melodismo dell’autore si anima di una cantabilità suadente.
Ma non è da questi momenti che I capricci di Callot, articolati in scene bizzarre fino all’assurdo, traggono la loro suggestione e la validità di commedia musicale, che il pubblico romano mostrò chiaramente di apprezzare In occasione della prima. Essi sono pienamente godibili come una grande a féerie, nella quale appaiono e scompaiono, quasi rapiti in un vento di follia, innumerevoli vestiti gonfi di aria, i cui fili sono tenuti da un burattinaio nascosto che non lascia loro scampo, e, non permettendo ripensamenti, li conduce sul filo della musica a credere in una inesistente verità.
Più che in altre occasioni analoghe, Malipiero ha qui messo in luce la ricchezza della sua fantasia, in melodie, ritmi, timbri, in un discorso musicale, Insomma, che tanto più cresce la sua efficacia quanto più è disgiunto dalle parole, come si può facilmente riscontrare nelle molte pagine e strumentali dell’opera: nel Prologo, ad esempio, in cui sono presentate, in modi accurati, le otto maschere di Callot, uscite dalla gamba di un monumentale clavicembalo (da notare in questa scena il singolare contributo del pianoforte solo); all’inizio del secondo atto, la raffigurazione di una Roma in maschera, allucinata e magica, che, se fosse svuotata di personaggi, farebbe pensare a una piazza di De Chirico; nell’intermezzo fra le due scene del terzo atto, che con la fantomatica danza funebre In morte di una bambola, prepara il clima spettrale delle ultime pagine dell’opera.
Il libretto dell’opera