Genova, Teatro Carlo Felice: “Il trespolo tutore”

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2020-2021
IL TRESPOLO TUTORE
Commedia in tre atti di Giovanni Cosimo Villifranchi, tratto da Amore è veleno e medicina degl’intelletti o vero Trespolo tutore di Giovanni Battista Ricciardi.
Musica di Alessandro Stradella
Trespolo MARCO BUSSI
Artemisia RAFFAELLA MILANESI
Nino CARLO VISTOLI
Ciro SILVIA FRIGATO
Simona JUAN SANCHO
Despina PAOLA VALENTINA MOLINARI
Orchestra del Teatro Carlo Felice

Direttore 
Andrea De Carlo
Regia Paolo Gavazzeni, Piero Maranghi
Scene Leila Fteita
Costumi Nicoletta Ceccolini
Luci Luciano Novelli
Nuovo Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 03 ottobre 2020
Non è senza emozioni che torniamo al Teatro Carlo Felice dopo molti mesi; eppure è con la massima lucidità che occorre prendere in esame la scelta, l’opera e l’esito della timida prima di stagione, “Il Trespolo tutore” di Alessandro Stradella. Una scelta intelligente di fronte alle molte restrizioni che questo periodo ci impone – solo sei personaggi, nessun coro, organico orchestrale ridotto – ma al contempo coraggiosa: si tratta infatti di un’opera “ritrovata”, di rarissima esecuzione e risalente a quel XVII secolo che ancora stava codificando il genere. Non manca anche il riconoscimento di una città – Genova – che il compositore aveva scelto come sua nuova casa nel 1678, che aveva visto l’anno seguente la prima di questo melodramma e che a Stradella levò anche la vita, giacché venne assassinato in Piazza Banchi forse a causa di un affaire con un’allieva. La scelta, tuttavia, ha anche dell’azzardo: inaugurare una stagione del Carlo Felice con un’opera praticamente sconosciuta e per lo più barocca (sapendo quanto poco il pubblico italiano sia devoto al periodo), suona anche come un’azione semi-kamikaze, inutilmente erudita per alcuni, semplicemente poco ponderata per altri. La verità è palese solo per chi questo “Trespolo tutore” l’ha visto, e cioè che si tratta di un melodramma con tutte le carte in regola per entrare di diritto nel repertorio, godibilissimo nel suo andamento da pochade, ma anche sorprendente per trovate e colpi di coda. Forse, azzardiamo una mediazione, si poteva pensare a una nicchia più specifica per un’opera tale, e non consacrarle una première di stagione: tuttavia, la consapevolezza della scarsa commercialità dell’evento spinge il teatro a non più di tre recite, di cui almeno la terza – quella cui abbiamo assistito – tristemente quasi vuota. Se la scelta si è legata alla qualità dell’opera, non può, comunque, essere criticata più di tanto, giacché siamo di fronte a una vera perla. Quante volte siamo soliti chiamare “barocchi” i melodrammi generalmente antecedenti a Mozart? “Barocco” è Monteverdi come Gluck, Händel come il giovane Mozart. Nel caso del “Trespolo tutore”, invece, siamo davvero di fronte a una commedia barocca, cioè frutto di quel milieu letterario specifico del XVII secolo che vive di concettosità, metageneristica, giochi di specchi, concordia oppositorum, ribaltamenti, eccentricità – d’altronde il termine stesso deriva dal portoghese barroco, usato per definire le rare perle eccentriche – ma anche passioni portate all’estremo e follia. Tutto questo possiede il “Trespolo tutore”: sagace parodia del buffo, in essa vediamo tutte le più insolite declinazioni d’amore – quello quasi incestuoso di Artemisia per Trespolo, quello ancillare di quest’ultimo per Despina, quello malato di Nino per Artemisia, e quello risanatore di suo fratello Ciro per la stessa; si arriva addirittura alla passione saffica di Simona, vecchia nutrice che per un equivoco si convince a sposare la bella protagonista. Eppure tutta questa smania d’amore si concluderà nel disastro: straordinario (e straordinariamente barocco) è il finale, allucinato, amaro eppure lieto, che vede il vecchio lubrico ottenere la povera servetta virtuosa, e la “diva” Artemisia, offesa dalla stupidità di Trespolo, accettare la corte non del povero Nino, pazzo per amore, ma del fratello spiantato Ciro, che non ha duraturo interesse per lei. Nessun desiderio viene esaudito, a parte quello di Trespolo, cioè il più volgare, e noi ci troviamo spiazzati ad ascoltare sul finale “Grand’infelicità!” al posto della soddisfazione generale. Tutto precipita, tutto si tinge di dramma proprio alla fine, ribaltando spregiudicatamente la moda seicentesca del tragicomico: è un’opera che avrebbe entusiasmato Lope de Vega ed Emanuele Tesauro, ma probabilmente anche Pierre Corneille. Musicalmente parlando siamo di fronte ad un compositore maturo, ma ad un genere che ancora attendeva una chiara codifica: questo fa sì che ci troviamo di fronte a sonorità ancora rinascimentali (larghissimo uso di liuti e chitarroni, organo usato per il basso continuo) piegati a un’inventiva sì barocca, ma ancora poco strutturata – il numero chiuso è breve e con un solo ritornello, l’uso degli abbellimenti, delle cadenze, delle agilità è moderato e significativo, i recitativi sono estesi, persino i ruoli vocali presentano delle “irregolarità”: il personaggio di Ciro, chiaramente un buffo, è assegnato a un castrato (solitamente pensato per ruoli eroici), mentre quello della nutrice Simona è affidato a un tenore en travesti, per scompigliare ancor più le carte delle identità e degli innamoramenti. Per quanto riguarda gli esiti che quest’opera ha prodotto al Carlo Felice, possiamo serenamente asserire che si è trattato di uno dei migliori spettacoli visti negli ultimi anni, nel quale musica e scena hanno davvero prodotto un tutt’uno encomiabile. La direzione dell’esperto Maestro Andrea De Carlo (grande studioso di Stradella e del suo tempo) concerta con sicurezza l’ensemble genovese, creando un dialogo senza soluzione di continuità tra scena e buca. Il cast presenta sei voci davvero di livello: Marco Bussi (Trespolo) è un basso dotato sia della giusta baldanza che di pregevole afflato; la sua linea di canto è rigorosa e ben scandita anche nella zona più  grave, il fraseggio è ben misurato. Raffaella Milanesi, nei panni di Artemisia, sorprende piacevolmente nelle mezzevoci, nelle messe di voce, il registro acuto non ci sembra invece sempre ben a fuoco; tuttavia la magnifica presenza scenica e la naturale propensione lirica del soprano romano compensano ampiamente i pochi limiti tecnici. Veri mattatori della serata sono stati i fratelli innamorati: il contraltista Carlo Vistoli (Nino) ammalia la platea nelle sue due scene di pazzia, sfoggiando una pasta vocale vellutata e ricca di armonici, grande padronanza della linea di canto, emissione piena in ogni registro, fraseggio vario e sempre efficace, dal tenerissimo all’invasato. Altrettanto importante è la prova di Silvia Frigato, un Ciro scoppiettante e sonoro, dalle precisissime agilità, ma che rivela anche una bella propensione agli  abbandoni più languidi. Spiccano meno i ruoli di lato, comunque cantati ben più che correttamente: simpatico, e autorevole, Juan Sancho, nell’inusuale ruolo della nutrice Simona, mentre giustamente leggera è la Despina di Paola Valentina Molinari, che si conferma valido soprano di coloratura. Il team creativo pone questo cast in un contesto neutro, sui toni di grigio, dominato da una grande scalinata, scandita da una serie di boccascena concentrici e talvolta interrotta da sipari di tulle. L’attrezzeria e i costumi sono però ben identificabili storicamente, immergendo la scena in un’atmosfera da cinematografo Anni Trenta: Artemisia è il personaggio col quale più si scatena la creatività della costumista Nicoletta Ceccolini, e compare nella sua prima e nella sua ultima uscita come una Wanda Osiris in lussureggianti piume di struzzo, mentre nelle altre scene ricorda una creatura uscita dalla penna di Dorothy Parker; Simona ha un piglio à la Coco Chanel – ottima la scelta dei registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi di non farne una macchietta comica, ma più un personaggio da cabaret; anche Trespolo, sul finale compare come un redivivo Fred Astaire; le proiezioni sui sipari di tulle richiamano le sperimentazioni teatrali e cinematografiche del periodo; i vari boccascena sono bordati di led, che li rendono simili alle specchiere dei vecchi camerini teatrali, o alle scenografie di film come “Seguendo la flotta” o “Ziegfeld Follies”. Raramente abbiamo visto una tanto felice cooperazione di scene e luci, e un plauso va per questo a Leila Fteita e Luciano Novelli, che oltre a essere il light designer è anche direttore degli allestimenti scenici del teatro: a seconda del momento siamo cataputalti da un set di Hollywood a un laboratorio teatrale parigino, da un palco di avanspettacolo alla più sfavillante Broadway, in un susseguirsi di suggestioni e variazioni sul tema, una più evocativa dell’altra – forse quella in assoluto più riuscita è l’apparizione di Artemisia come da un tableau manierista durante la prima splendida scena di follia di Nino. Anche la regia dà sfogo a un rutilante susseguirsi di caratterizzazioni dei personaggi, che supplisca l’impossibilità per gli interpreti di toccarsi e avvicinarsi: l’iniziale pazzia di Ciro, ad esempio, si esplicita con movimenti marionettistici, come nel Tingeltangel di Valentin, mentre quella di Nino ha un che di scespiriano, dolente e maledetto; nei momenti di sanità mentale, invece, questo sembra il tipico principe azzurro, l’altro uno strillone di quartiere; il modo gigione e ottuso di Trespolo ricorda sia il Pantalone della Commedia dell’Arte, sia Petrolini, mentre Artemisia è a tratti vistosa soubrette e a tratti sofferente donna in amore, sul modello comunque divistico di Greta Garbo e Marlene Dietrich, delle loro gestualità e mimiche. Se ne ricava un godibilissimo Thirties Pastiche, che non ostacola, anzi valorizza la narrazione dell’opera, e ne fa ricordare i passaggi anche musicalmente più rilevanti – ad esempio, durante la seconda follia di Nino, il contralto si getta prono lungo la scalinata, e in questa posizione ardita canta per diverse battute (“Fa’ la nanna, Nino mio”); o ancora, al suo ultimo ingresso (“Questo affronto? Questo a me?”) Artemisia non teme il canto dal punto più profondo della scena. All’alzarsi delle luci in sala ci si sente rincuorati dalla mancanza dell’happy ending, ci sembra che quello che abbiamo visto al di là della cavea non è poi troppo diverso da quanto avviene al di qua; ma soprattutto ci si sente fortunati ad aver assistito a una simile congiuntura di bellezza. Il pubblico – per quello che può – scroscia applausi a non finire, ma la sensazione è, ahinoi, che non rivedremo presto questo “Trespolo tutore” sulle nostre scene. Foto Marcello Orselli