Vigilia in quattro scene, su libretto dell’autore. Prima rappresentazione: Monaco di Baviera, Kõnigliches Hof-und Nationaltheater 22 settembre 1869.
Negli anni in cui prendevano forma opere quali “Tannhäuser,” “Lohengrin”, “I Maestri Cantori di Norimberga”, la lettura delle antiche leggende tedesche costituiva per Wagner oggetto di ricerche appassionate e studi profondi. La lettura del Nibelungenlied (“cantare” trecentesco), del mito dell’Edda, di saghe scandinave, rivelò al giovane Wagner un mondo primitivo barbarico straordinariamente accattivante. L’idea di un’opera ispirata al “cantare” nibelungico si profilò prepotentemente e si accentrò sulla figura di Sigfrido, che di quel “cantare” era l’eroe. La morte di Sigfrido come atto di redenzione dall’iniquità del mondo e il conseguente avvento di una società migliore apparvero a Wagner gli atti conclusivi di un dramma che partendo dal mito doveva approdare a una realtà storica precisa e palpabile.
Nel 1851 alle terme di Albisbrunn, Wagner studiò la saga dei Welsung, al primordiale conflitto tra gli elfi bianchi e gli elfi neri. Gli apparve chiara la visione di un prologo che partendo da uno stato di natura innocente, anteriore alla comparsa dell’uomo, desse l’avvio con il furto dell’oro a un processo distruttivo che avrebbe dovuto investire tutti e tutto per recuperare infine nella purificazione col fuoco l’identico stato innocente della natura.
L’idea si arrichì poi di apporti di altre leggende. A quella di Sigfrido, Wagner aggiunse quella scandinava del Crepuscolo degli dei (perchè Wotan, il Walhalla, le Walkirie erano figure estranee al mito tedesco); e volle rappresentare la distruzione del mondo col fuoco: idea del “Muspilli” e di altra letteratura tedesca di ispirazione cristiana. Anzi, nel pensiero di Wagner la saga dei Nibelunghi finì col confondersi con altre leggende: perfino il Graal gli apparve come idealizzazione dell’oro del Reno. Tutti i miti insomma si organizzano in una sorta di nuovo personale mito cui Wagner poteva agganciare una dopo l’altra quasi tutte le sue opere più importanti. Johann Gottfried Herder aveva scritto: “Ma quando accadrà che dalla mescolanza di saghe e favole verrà una nuova Iliade,un’Odissea che tolga a tutte le saghe il primato e costituisca invece la saga delle saghe”. L’idea wagneriana fu appunto quella: e costituì non solo la saga delle saghe ma anche l’epica nazionale tedesca.
Il testo poetico dell’Oro del Reno era pronto nel novembre del 1852; un anno dopo era pronto l’abbozzo dell’opera. Wagner ne dà notizia a Liszt in una lettera:”L’Oro del Reno è finito; ma sono finito anch’io”. Naturalmente non era affatto finito ed era anzi pieno di energie (la Tetralogia sarà ultimata nel 1874); ma Wagner amava essere complimentato e incoraggiato.
La strumentazione fu completata il 28 maggio dello stesso anno. Il primo atto della monumentale impresa era concluso. Il resto si compirà ventidue anni più tardi; ma nel frattempo verranno Tristano e Isotta (1859) e I Maestri cantori di Norimberga (1867).
L’Oro del Reno è la fonte dei simboli e degli avvenimenti dell’intero ciclo. Avvenimenti che si succedono in una complicata matassa con bandoli veri e allusivi: groviglio di situazioni reali e fantastiche in cui è difficile tenere il filo. E poichè ad ogni avvenimento, ad ogni personaggio Wagner attribuisce un tema, l’ordito tematico dell’opera è più fitto che non nelle altre tre opere. I numerosi “Leitmotive” vengono elaborati secondo una tecnica, scrive Thomas Mann, “di raffinato virtuosismo, che rende la musica, come mai nel passato, strumento di allusioni, di approfondimenti, di riferimenti psicologici”. Dal mormorio iniziale del Reno al luminoso arcobaleno finale sul quale, come su un ponte, salgono gli dei del Walhalla. Wagner espone 38 leitmotive; alcuni dei quali compariranno molto spesso nel corso delle tre giornate: come i temi dell’oro, dell’anello, della rinuncia d’amore, del Walhalla, dei giganti, di Loge, dell’incantesimo del fuoco, della fucina, della spada.
È stato detto che la musica dell’Oro del Reno “agisce con la tranquilla potenza dell’arte antica; la sua bellezza è di una tale calma e purezza che non si offre ma vuole essere ricercata. Nonostante la profondità possiede una grandiosa chiarezza, le figure ci appaiono evidenti e lo sguardo on incontra mai barriere o un ostacolo”(S.Porges).