Opéra-comique in tre atti su libretto di Léon de Wailly e Auguste Barbier. Prima rappresentazione: Parigi, Opéra, 10 settembre 1838.
“Si tributò all’ouverture un successo esagerato e si fischiò tutto il resto con un accordo e un’energia ammirevoli. Comunque l’opera venne replicata per tre volte, dopodiché, Duprez, avendo creduto di dover abbandonare il ruolo di Benvenuto, l’opera scomparve dal cartellone e non vi riapparve che molto tempo dopo”. Con queste parole, non prive di una certa amarezza, Berlioz avrebbe ricordato in seguito, nei suoi Mémoires, la fredda accoglienza riservata alla sua opera Benvenuto Cellini alla prima rappresentazione all’Opéra di Parigi il 10 settembre 1838 sotto la direzione di François-Antoine Habeneck con Julie Dorus-Gras (Teresa), Rosina Stoltz (Ascanio), Gilbert Duprez (Benvenuto Cellini), Jean-Étienne-Auguste Massol (Fieramosca) e Jacques-Èmile Serda (cardinal Salviati). L’opera, pur trovando in seguito tra i suoi estimatori Franz Liszt che nel 1852 ne mise in scena una nuova versione approntata da Berlioz, non riscosse mai il successo sperato dal compositore francese che, tuttavia, aveva creduto in questa partitura forse troppo moderna per essere compresa ed eseguita in modo corretto nel 1838. Habeneck, pur essendo un grande direttore d’orchestra, non era riuscito, infatti, a superare alcune difficoltà tecniche presenti soprattutto nel brillante Saltarello dell’atto secondo, come ricordò lo stesso Berlioz:
“Quando arrivammo alle prove con l’orchestra, i musicisti, vedendo l’aria accigliata di Habeneck, si ritirarono alla mia vista nel più freddo riserbo. Loro facevano il loro dovere tuttavia. Habeneck faceva male il suo. Egli non riuscì mai ad arrivare a cogliere la brillante velocità del Salterello danzato e cantato a piazza Colonna nel mezzo del secondo atto. I ballerini non riuscivano ad adattarsi al suo andamento strascicato, venendo a lamentarsi con me e io gli ripetevo: ‘Più presto! Più presto! Animate dunque!’. Habeneck, irritato, colpiva il suo leggio e rompeva la sua bacchetta. Infine, dopo averlo visto abbandonarsi a quattro o a cinque eccessi di collera simili, io finii per dirgli con un sangue freddo che lo esasperò: ‘Mio Dio, signore, voi potrete rompere cinquanta bacchette, cosa che non impedirà al vostro movimento di essere la metà più lento. Si tratta d’un Salterello’. In quel momento Habeneck si fermò e girandosi verso l’orchestra: ‘Dal momento che io non ho la fortuna di accontentare il signor Berlioz, disse egli, noi ci fermeremo qui per oggi, voi potete ritirarvi’. La prova si concluse così”.
Nata in questo clima ostile, l’opera fu un fiasco, sebbene Berlioz avesse lavorato duramente e con passione a questo suo progetto:
“Ero stato vivamente colpito da alcuni episodi della vita di Benvenuto Cellini; ebbi la sfortuna di credere che potevamo offrire un soggetto d’opera drammatico e interessante, e pregai Léon de Wailly e Auguste Barbier, il terribile poeta dei Giambi, di farmene un libretto.
Il loro lavoro, secondo alcuni amici comuni, non ha quegli elementi necessari al fine di costruire un dramma ben fatto. Nondimeno mi piaceva e ancor oggi non vedo in cosa sia inferiore a tanti altri che vengono rappresentati quotidianamente. Duponchel, in quel tempo, dirigeva l’Opéra; mi guardava come una specie di folle la cui musica non era e non poteva essere altro che un intreccio di stravaganze. Tuttavia, per dimostrarsi cortese con Le Journal des Débats, acconsentì a sentire la lettura del libretto del Benvenuto che accolse almeno in apparenza con piacere. Andò poi dicendo dappertutto che egli avrebbe messo in piedi l’opera, non per la musica, che, immaginava, doveva essere assurda, ma per il dramma che trovava affascinante.
Lo fece mettere in prova in effetti, e non dimenticherò mai le torture che fui costretto a sopportare nei tre mesi dedicati alle prove. La mancanza d’interesse, il disgusto evidente che la maggior parte degli attori, già persuasi d’una caduta, dimostravano alle prove; il cattivo umore di Habeneck, le sorde mormorazioni che circolavano all’interno del teatro; le stupide osservazioni di tutto questo mondo illetterato, a proposito di alcune espressioni di un libretto così diverso, per lo stile, dalla piatta e sciatta scuola di Scribe; ogni cosa mi rivelava un’ostilità generale contro la quale non avrei potuto niente, e di cui dovetti fingere di non accorgermi”.
Dopo la prima rappresentazione avvenuta l’opera e il suo autore furono apertamente derisi e fatti oggetto del più acuto e, in alcuni casi, offensivo sarcasmo; eclatante è quanto si legge nella recensione pubblicata il 16 settembre 1838 su «Le Ménéstrel»:
“Dopo quanto è appena avvenuto in rue Lepelletier 10, non ci è più concesso di mettere in dubbio l’intrepidezza della nazione francese. Già i nostri soldati hanno dimostrato il loro valore su mille campi di battaglia; la Francia conta un così grande numero di azioni eclatanti nella vita civile; ma nulla potrebbe essere paragonato ai prodigi di valore che si sono appena compiuti all’Académie royale de musique. Il nostro unico imbarazzo consiste nel sapere chi è stato più coraggioso, tra i poeti che hanno messo in versi il Cellini, o il compositore che ha scritto la partitura, o il signor Dupouchel che l’ha accettata, o gli attori che l’hanno messa in scena, o il pubblico che l’ha ascoltata. Facciamo la parte di ciascuno e diciamo che dal piccolo al grande, da Duprez fino a quello che ha accesso le lampade, tutti hanno fatto il loro dovere.
Gli autori del libretto hanno soprattutto dispiegato una forza di volontà, un’energia di cui si cercherebbe invano l’esempio negli annali teatrali: in effetti, quale fabbricante di libretti lirici avrebbe osato quanto loro? Quale snocciolatore di versi avrebbe servito, nel 1838, al pubblico elegante dell’Opéra, una farsa di teatrino condita con la sua Cassandra, il suo Gilles e la sua Colombina? Ma affrettiamoci a dire che questi prodi del Parnaso hanno trovato nel compositore un atleta vigoroso e degno di mantenersi all’altezza del libretto.
Mozart, Weber, Beethoven, Meyerbeer, Rossini hanno ben qualche merito, nessuno può contestarlo; ma sfortunatamente questi compositori si sono assoggettati a non so quale regola chiamata ritmo, che colpisce i loro capolavori con una simmetria disperante; essi hanno la menomazione di voler affascinare le orecchie e piacere alle masse, cosa pietosa in musica, come ciascuno sa. Il signor Berlioz si è accorto di questo abuso e ha aperto una nuova strada. Ha preso un pugno di crome, di biscrome, di minime, di semiminime, di diesis, di bemolle, di pause e di punti coronati; ha gettato tutto quanto in un sacco, l’ha mescolato e ha gridato: «Che la mia partitura sia!» e la sua partitura fu. E ha detto ai violinisti: strimpellate! Ai flautisti: soffiate! Ai trombettisti: suonate! Agli oficleidi: strombazzate! Ai contrabbassi: stridete! Ai cantanti: sbraitate! E al pubblico: fremete!
E il pubblico ha avuto dei fremiti come se assistesse a un terremoto.
Non è che noi non abbiamo notato qua e là alcuni leggeri scarti, frutti inevitabili della nostra insipida educazione musicale. Così, il valzer del primo atto, cantato dalla signora Dorus-Gras, il trio, l’aria del divertissement, il bolèro della signora Stoltz, rientrano un po’ nella strada battuta dalla musica piacevole, ritmata e assomigliano a tutto. Fortunatamente queste macchie sono rare, e il compositore ce ne fa un ampio risarcimento con una folla di pezzi che non assomigliano a niente.
Uno dei principali caratteri di questa partitura, è che gli attori non sanno cosa cantano, i musicisti non sanno che cosa suonano e il pubblico non sa cosa sente. È il colmo dell’arte”.
Non tutto il pubblico si schierò contro Berlioz che fu confortato dalle parole del grande scrittore Victor Hugo il quale gli scrisse in una lettera: Cantate, voi che siete fatto per cantare, e lasciate gridare quelli che sono fatti per gridare.
Di diverso tono fu anche l’articolo pubblicato da Auguste Morel, amico di Berlioz, l’11 settembre 1838 su «Le Journal de Paris», nel quale giustificò, in un certo qual modo, anche la forza delle polemiche scatenate dalla rappresentazione dell’opera:
“In una parola, Berlioz è una di queste organizzazioni energiche che si attira tanto ardenti simpatie quanto vive inimicizie, del quale tutte le produzioni hanno un sigillo di originalità e di volontà forte che non permette che si accordi loro solamente un’attenzione secondaria. Bisogna prendere parte a favore o contro, diventare suo ammiratore entusiasta o suo avversario accanito, ma non permette a nessuno di mostrarsi indifferente nei suoi confronti, e di restare neutrale.
Per quanto ci riguarda, si sa già in quale campo noi abbiamo preso posto; in occasione della messa di Requiem di Berlioz, abbiamo testimoniato l’ammirazione che noi proviamo per questa grande e magnifica opera, e noi siamo stati felice di poter riconoscere, in occasione dell’accoglienza che ha avuto a Parigi, dell’entusiasmo che uno dei suoi frammenti ha suscitato al Festival di Lille, che la maggioranza delle persone la pensava come noi, che tutte le forti e severe bellezze di questa musica erano degnamente apprezzate. Così, pur pensando che le forme musicali adottate da Berlioz erano forse più difficili da rendere naturali sulla scena piuttosto che nella musica sacra, noi non abbiamo dubitato un solo istante della sua riuscita. Se quanto accaduto non ci ha dato pienamente ragione, se Benvenuto Cellini, non ha ottenuto tutto il successo che noi ci auguravamo per esso, la colpa non è del libretto, e non è della musica che ha completamente giustificato le nostre speranze e innalzato i voti. E pertanto questa prima audizione è lontana d’aver dato un’idea completa di quest’opera nella quale ci sarà sempre qualche cosa da scoprire quando la si ascolterà. Ma questa musica, che è così ricca e piena che non ha, ad oggi, nemmeno prodotto il più grande effetto; essa non ha potuto far sentire ancora a tutti tutti i tesori di sentimento e di melodia che racchiude, ma nessuno ha potuto misconoscere la sua forza e la sua potenza d’effetti; ne è stato scosso e trascinato, presto ne sarà allo stesso modo affascinato”.
Le parole di Morel non furono profetiche e dopo tre serate il Benvenuto Cellini scomparve dalle scene dell’Opéra. Berlioz, in seguito, rimaneggiò la partitura approntando una versione in due atti che fu rappresentata a Weimar nel 1852 sotto la direzione di Liszt il quale gli suggerì ulteriori modifiche. In una nuova versione in tre atti l’opera fu rappresentata con scarso successo anche al Royal Italian Opera House di Londra il 25 giugno 1853 in presenza della famiglia reale inglese e tedesca. Sulle colonne del «Times» del 17 giugno si legge:
“Non è un compito piacevole annunciare il fallimento di un lavoro al quale molto tempo, fatiche e pensieri sono stati dedicati, ancor meno quando quel lavoro è di alte pretese, il suo autore un uomo di ferma reputazione e di riconosciuto entusiasmo artistico. È nostro dovere, tuttavia, registrare che l’opera semiseria Benvenuto Cellini di Hector Berlioz che è stata rappresentata una volta a Parigi senza successo (nel 1838), non ha incontrato miglior fortuna sabato notte, alla Royal Italian Opera davanti a un folto pubblico, tra cui c’erano le loro Maestà, il Principe Alberto, e il re e la regina di Hannover […]. Il libretto del Benvenuto Cellini, dei signori de Wailly e Barbier, è tra i peggiori mai propinati a un compositore. Noi non possiamo, tuttavia, comprendere come uno con l’esperienza, il giudizio e le competenze letterarie di Berlioz possa essere stato indotto ad accettare un tale libro; come uno pronto a rilevare i punti deboli e le assurdità di altri, dovesse esser stato così cieco quando venne il suo turno […]
Che la musica del Benvenuto Cellini sia composta su principi in contrasto con quelli dei riconosciuti maestri è vero. Ma il fatto che una cosa sia nuova, non significa che sia cattiva”.
L’opera non ha avuto maggiore fortuna nel Novecento e in Italia la prima rappresentazione ha avuto luogo a Napoli il 3 gennaio 1967.
L’opera
il libretto
L’ouverture
Pagina estremamente sfolgorante e ricca dal punto di vista anche delle scelte orchestrali nelle quali Berlioz eccelleva, la celeberrima ouverture, che si è affermata nelle sale da concerto, ha una struttura formale simile a quelle di altre ouvertures del compositore francese con una sezione centrale lenta incastonata da due sezioni di grande vitalità ritmica. Aperta, infatti, da un tema travolgente e festoso che rappresenta il clima del carnevale, l’ouverture prosegue nella sezione centrale con il tema solenne del cardinale A tous péchés pleine indulgence del terzo atto (Es. 1), e, infine, si conclude con la ripresa ampiamente sviluppata della sezione iniziale.
Atto primo
A Roma, durante il carnevale del 1532, Balducci, padre di Teresa e tesoriere del papa, è convocato dal pontefice che ha deciso di affidare a Cellini la realizzazione di una scultura in bronzo raffigurante Perseo che ha mozzato la testa alla medusa. L’uomo, preferendo affidare questo incarico allo scultore Fieramosca, a cui vorrebbe dare in sposa la figlia, innamorata, invece, di Cellini, si lamenta con Teresa della scelta del pontefice, mentre si sentono in lontananza le voci di Cellini e dei suoi amici che festeggiano il carnevale. Questa movimentata scena iniziale è rappresentata musicalmente da una fug il cui soggetto è esposto dai violoncelli e ai contrabbassi (Es. 2).
A conclusione della scena l’uomo esce di casa lasciando sola la figlia alla quale Cellini getta attraverso una finestra un mazzo di fiori accompagnato da un biglietto; la ragazza, segretamente innamorata di Cellini, nella cavatina Entre le devoir et l’amour dalla struttura tripartita (A-B-A), è tormentata perché divisa tra l’amore per lo scultore fiorentino e il dovere di figlia che la costringerebbe a fingere per tutta la vita. Nella virtuosistica cabaletta Quand j’aurai votre âge, la fanciulla, con una certa risolutezza, afferma che, quando avrebbe avuto l’età di suo padre, si sarebbe comportata in modo più saggio, ma che a 17 anni sarebbe stato un peccato rinunciare ai propri sogni. In quel momento è raggiunta da Cellini che dichiara il suo amore nell’appassionato cantabile O Teresa, vous que j’aime plus que ma vie, il cui tema (Es. 3), riorchestrato magistralmente, costituirà la parte centrale dell’ouverture Carneval romain che Berlioz compose riprendendo alcuni temi di quest’opera. Nel frattempo entra non visto Fieramosca e ascolta solo una parte del piano ideato da Cellini che propone alla ragazza di fuggire con lui a Firenze durante i festeggiamenti della sera del Martedì Grasso, aggiungendo che egli si sarebbe mascherato da frate con il saio bianco. Per vincere le resistenze della fanciulla, egli, inoltre, afferma che il padre è responsabile di un grave comportamento nei suoi confronti dal momento che voleva rinchiuderla in un convento in caso di un suo rifiuto opposto al matrimonio con Fieramosca. Berlioz costruì, in questo passo, un terzetto estremamente raffinato dal punto di vista contrappuntistico.
Si sente Balducci tornare e, se Cellini riesce a fuggire, a Fieramosca non resta che nascondersi nella camera da letto dove è scoperto dall’anziano tesoriere che chiama a raccolta tutti i vicini nel Finale A nous voisines et servants; nella confusione Fieramosca, che cerca invano di difendersi dall’accusa di libertinaggio, viene prelavato dai vicini che gli fanno fare un bagno nella fontana.
Atto secondo
Introdotto dal magnifico salterello, che Berlioz riutilizzerà nell’ouverture Carneval Romain, il secondo atto si apre su piazza Colonna, dove, la sera del Martedì Grasso, si stanno svolgendo i festeggiamenti del carnevale. Qui Cellini, mentre attende l’arrivo di Teresa (Récit: Une heure encore), medita se sia più importante la gloria o l’amore nella sognante e finemente orchestrata con interventi in eco del corno e del fagotto, Romance, La gloire était ma suele idole, affermando che Teresa seule en son coeur règne. Raggiunto dai suoi amici, Cellini, insieme con loro, improvvisa un brindisi (A boire) nel quale inneggia alla bravura degli artisti orafi fiorentini, ma è interrotto da Ascanio il quale, portando con sé il compenso, lo informa che il Papa vuole la statua di Perseo pronta per l’indomani (Air: Cette somme t’è due). Cellini e gli amici giurano che la statua sarà pronta per l’indomani e, nonostante il compenso giudicato modesto, continuano a festeggiare impegnandosi a realizzare una grande statua per il Papa e per l’Italia.
Per evitare la fuga dei due amanti, Fieramosca ha ordito un suo piano, manifestato nel dialogo recitato con Pompeo al quale confida che si sarebbe travestito anche lui con un saio bianco in modo da disorientare Teresa. Subito dopo l’uomo si produce nella bella Air tripartita Qui pourrait me résister, conclusa da un Allegretto estremamente moderno e geniale per la struttura ritmica asimmetrica, dal momento che Berlioz, costruisce, accorpando le battute, ritmi di 5 e 7 tempi per simulare il duello con il suo rivale.
All’inizio della splendida scena del Carnevale che conclude l’atto, a Balducci che rivendica di essere un buon padre risponde Teresa sempre più attanagliata dai dubbi per la fuga che sta per intraprendere. A dare inizio al carnevale, nel quale anche gli strumenti con i loro assoli diventano protagonisti, è il Choeur de Bateleurs che, su un altro tema utilizzato sempre da Berlioz sempre nell’ouverture Carneval Romain (Es. 4) invita il popolo di Roma ad assistere ad una pantomima ideata da Cellini nella quale si riconosce la caricatura di Balducci. Inizia la cosiddetta ouverture de la Pantomime, una goffa marcetta, a cui segue l’Ariette d’Arlequin, nella quale si distingue il bell’assolo del corno inglese su un accompagnamento di due arpe. Di carattere caricaturale è, invece, l’assolo dell’oficleide, oggi sostituita dalla tuba, che caratterizza La cavatine de Pasquariello. Al termine della pantomima Teresa cerca di fuggire, ma all’appuntamento trova due persone travestite da Cappuccini che dicono entrambi di essere Cellini; uno di loro è Fieramosca, accompagnato dal suo amico Pompeo, che nella conseguente rissa viene ucciso per errore da Cellini prontamente circondato dalle guardie. Il colpo di cannone, sparato da Castel Sant’Angelo, annuncia che il carnevale è finito e che tutti devono tornare a casa. Nella confusione generale Cellini riesce a salvarsi, mentre viene arrestato, per errore, Fieramosca, ritenuto responsabile dell’omicidio.
Atto terzo
Un breve Entr’acte, di carattere misterioso sin dall’iniziale scala cromatica discendente, seguito da un coro di cesellatori che ritornano al lavoro, introduce il terzo atto che si svolge nello studio di Cellini dove Teresa, insieme con Ascanio, attendono l’arrivo dell’orafo. La donna teme che il suo amato non sia riuscito a salvarsi (Il n’a pa reparu). Si ode ancora un coro di cesellatori che si accompagnano ritmicamente con un martello, mentre+ Ascanio si produce in un’aria Tra la la nella quale, con atteggiamento canzonatorio e su un andamento da barcarola, prende in giro tutti i personaggi del dramma. Teresa è sempre più inquieta per il ritardo di Cellini e a nulla valgono le rassicurazioni di Ascanio (Récit: Ah, qu’est il devenu); la loro discussione è interrotta da un coro che accompagna la processione del mercoledì delle ceneri con la recita delle litanie del Rosario. Ascanio e Teresa si uniscono ad esso nella preghiera dando vita ad una pagina di intenso raccoglimento, a conclusione della quale entra in scena Cellini il quale, dopo aver raccontato la sua rocambolesca fuga, afferma che è necessario affrettarsi. I due allora immaginano di vivere felici insieme nel duetto Quand des sommets, che costituisce uno dei momenti più poetici dell’intera partitura. I piani di fuga di Teresa e Cellini vanno a monte perché i due sono sorpresi da Balducci e Fieramosca che danno vita alla drammatica Scène et Sextuor nel quale inizialmente accusano l’artista fiorentino di omicidio. L’arrivo del cardinale Salviati, rappresentato da una scrittura solenne (A toute péchés pleine indulgence), riporta la pace anche perché il prelato afferma che il Papa avrebbe conceso il perdono e la mano di Teresa a Cellini a condizione che questi porti a compimento l’opera. In caso contrario l’artista sarebbe stato impiccato, mentre il coro, insistendo sulla parola Pendu, sembra far materializzare questa tremenda immagine.
Cellini, nella sua fonderia nei pressi del Colosseo, dopo aver incarnato la figura dell’artista romantico che lotta contro tutto e tutti (Récit: Seul pour lutter), nel quale sembra identificarsi lo stesso Berlioz, vagheggia la tranquilla vita del pastore nell’Air Sur les mont mostrando un forte desiderio di libertà. È un’aria estremamente complessa dal punto di vista vocale perché costringe il tenore a muoversi in una parte del suo registro particolarmente ardua, tanto che nella ripresa di Weimar non fu cantata come affermato dallo stesso Berlioz che in una lettera a Barbier scrisse con un certo orgoglio che non si era osato mai cantarla. Nella fonderia giunge un ufficiale che imperiosamente annuncia: Son Eminance attend, ma per riempire lo stampo è necessario ancora del metallo richiesto a gran voce dagli operai. Cellini, disperato, decide allora di gettare tutti gli oggetti da lui creati nella fornace dove una terribile esplosione annuncia che il Perseo è stato fuso e la statua appare in tutto il suo splendore. Tutti celebrano la vittoria dell’artista nel coro Gloire à lui.