Melodramma in due atti su libretto di Felice Romani. Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 10 settembre 1839.
È ancora oggi piuttosto difficile ricostruire la genesi dell’opera Gianni di Parigi di Donizetti dal momento che dalla sua composizione alla prima rappresentazione passarono 10 o forse 11 anni. Secondo alcuni biografi del compositore bergamasco, Gianni di Parigi, composto nel 1831, sarebbe stato concepito come un omaggio al grande tenore Giovanni Battista Rubini che aveva trionfato, insieme a Giuditta Pasta e a Luigi Lablache, nell’Anna Bolena al Teatro Carcano di Milano il 26 dicembre 1830. Donizetti, che aveva scritto la parte del protagonista tenendo in considerazione le caratteristiche vocali del tenore italiano, gli aveva donato la partitura nella speranza che l’opera fosse messa in scena in uno dei teatri di Parigi, città nella quale Rubini era già una star acclamata a differenza del compositore che non era ancora riuscito ad affermarsi nel mondo musicale della capitale francese. Sempre secondo questa ipotesi, Rubini avrebbe preso, senza mai farla rappresentare, la partitura dell’opera che, sparita per un certo periodo, sarebbe approdata alla Scala grazie all’impresario Bartolomeo Merelli che decise di metterla in scena, nonostante le proteste di Donizetti, nell’importante teatro italiano il 10 settembre 1839 con un cast d’eccezione, costituito dal tenore Lorenzo Salvi (Gianni), futuro interprete della prima opera di Verdi, Oberto, Conte di San Bonifacio, dal soprano Antonietta Marini-Rainieri (La Principessa di Navarra), da suo marito, il basso Ignazio Marini (Gran Siniscalco), da Marietta Sacchi (Lorezza) e da Agostino Rovere (Pedrigo). Il musicologo Anders Wiklund, il quale, basandosi sull’analisi del manoscritto conservato nella biblioteca del Conservatorio San Pietro in Majella di Napoli e di una copia manoscritta stesa dai copisti dei Reali Teatri di Napoli conservata nell’archivio Ricordi, ne ha approntato un’edizione critica per la sua rappresentazione a Bergamo nel 1988, ha sostenuto che l’opera è stata composta nel 1828, data che si legge in alto a sinistra nella prima pagina dell’autografo dell’ouverture. È molto probabile che Donizetti abbia composto l’opera intorno al 1828 per i teatri di Napoli, dove, però, non fu mai rappresentata, e che abbia deciso di darla al tenore italiano per un’eventuale rappresentazione parigina soltanto dopo una revisione, testimoniata dalla copia della partitura conservata nell’archivio Ricordi; in essa si possono notare alcune differenze che coinvolgono sia la parte del tenore adattata alle potenzialità vocali di Rubini, sia l’eliminazione delle parti spiccatamente napoletane, come la tarantella e l’ouverture, sostituita con un preludio. È proprio questa versione della partitura che, presumibilmente acquistata da Merelli direttamente da Giovanni Ricordi, fu messa in scena alla Scala nel 1839 dove tenne il cartellone per ben 12 serate. Nonostante il successo della prima scaligera, l’opera non si affermò nel repertorio e, eccezion fatta per alcune riprese nel 1845 al Teatro Regio di Torino e nel 1846 al San Carlo di Napoli, non vide i palcoscenici italiani per tutto l’Ottocento. Dopo la prima ripresa moderna, nel 1985 a New York, l’opera è stata rappresentata nel 1988 a Bergamo nella già citata revisione approntata da Wiklund e, più di recente, a Martina Franca nel 2010 e nella città irlandese di Wexford nel 2011.
Per la composizione di quest’opera Donizetti si avvalse, apportando ad esso delle modifiche di proprio pugno, di un vecchio libretto che Romani aveva scritto nel 1818 per Francesco Morlacchi e per il quale si era ispirato a Jean de Paris di François-Adrien Boïeldieu su testo di Claude Godard d’Aucourt de Saint-Just, rappresentato quest’ultimo all’Opéra-Comique di Parigi nel 1812 e ripreso a Napoli nel 1816. Basata su un soggetto medievale tratto da un roman de chevalerie che era tornato in auge in Francia in nell’Ottocento grazie a un mélodrame in tre atti scritto da B. J. Marsollier e rappresentato a Parigi nel 1807 con le musiche di scena di Hanry Dorendau, l’opera di Boïeldieu aveva goduto di un grande successo nella capitale francese nella prima metà dell’Ottocento. La notorietà di quest’opera, secondo Ashbrook, uno dei più importanti biografi di Donizetti, costituirebbe una ragione della diffidenza di Rubini nei confronti di un’eventuale rappresentazione dell’opera. Ashbrook ha, inoltre, ipotizzato che il rifiuto di Rubini sia stato causato dalle caratteristiche della parte, simile a quella di Gianni da Calais sempre di Donizetti, opera con la quale il mitico tenore italiano non aveva colto quel successo sperato alla prima rappresentazione avvenuta a Napoli nel 1827, ma lontana da quei ruoli romantici da lui sempre più prediletti.
L’opera
Preludio
L’opera si apre con uno snello e breve Preludio che, inserito nella versione del 1831 in sostituzione della Sinfonia scritta per una possibile rappresentazione a Napoli nel 1828, è quasi interamente composto sulle note del coro del secondo atto (La dea della festa); dal punto di vista formale presenta una struttura tripartita (A-B-A’) con un tema vivace iniziale (Es. 1) esposto dall’orchestra dopo un rullo di timpani a cui si contrappone, nella parte centrale, un altro di carattere cantabile esposto dagli oboi (Es. 2). Alla ripresa segue, a differenza del coro del secondo atto, una coda estremamente moderna per le scelte armoniche con accordi che restano sospesi senza le loro regolari risoluzioni.
Atto Primo
La scena si apre sulla locanda della Posta di un villaggio del Regno di Navarra, dove inservienti e donne stanno sistemando la sala (Coro: Su, sbrighiamoci, spazziamo) per accogliere la Principessa di Navarra, come si apprende dalle parole di Lorezza, figlia del locandiere Pedrigo, il quale, in una scrittura solenne che rivela immediatamente il suo carattere caricaturale, rifiuta a Oliviero, paggio di Gianni di Parigi, di alloggiarlo nella sua locanda. Il locandiere, la cui parte caratterizzata da rapide crome indugia quasi al parlato in una scrittura tipica da basso buffo, dopo gli iniziali rifiuti, finisce per cedere alle insistenze di Oliviero, convinto che la principessa non giungerà prima di sera, come si apprende nel successivo recitativo secco. Accompagnato dal suo seguito (Coro: Il desinar preparasi), giunge nella locanda Gianni di Parigi che, dopo averne lodato le bellezze nello spensierato cantabile della cavatina (Di Parigi un buon borghese), nel tempo di mezzo (Mi perdoni: è già fissato) convince il locandiere ad alloggiarlo pagando il doppio di quanto pattuito da quest’ultimo con la principessa di Navarra. Infine Gianni può inneggiare, insieme al coro, a Bacco e all’Amore nella cabaletta, Tutto qui spiri gioia e allegria, nella quale dichiara che avrebbe tradito Bacco nel caso in cui si fosse invaghito della bella dama attesa nella locanda.
Subito dopo, nel recitativo secco, che costituisce il dialogo tra il protagonista e il suo paggio, si apprende dalle incaute labbra di Oliviero che la vera identità di Gianni è quella di Filippo di Valois, promesso sposo della Principessa di Navarra. Sopraggiunge, sempre più agitato perché venuto a conoscenza dell’arrivo del Siniscalco della Principessa, Pedrigo il quale, temendo una punizione esemplare, chiede a Gianni di andar via, ma questi, divertito per quanto sta accadendo, si prende gioco del locandiere, restando fermo nel suo proposito di alloggiare nella locanda.
L’arrivo del Siniscalco produce una nuova situazione comica, in quanto l’uomo, vocalmente un basso, sin dall’inizio si presenta estremamente ridicolo con i suoi virtuosismi quasi da tenore da opera seria nell’arioso iniziale Venga ciascun qual fulmine; appaiono ridicole anche le sue minacce allorché si accorge che nessuno si muove ai suoi cenni e litiga con Gianni sul conto del quale si abbandona a commenti poco lusinghieri (cantabile: Poffar Bacco! ‘ sti borghesi), mentre questi si prende gioco di lui (Mai non vidi e non intesi). Il Siniscalco ordina allora a Gianni di partire (tempo di mezzo: Esci, vola; ecco i corsieri) senza sortire alcun effetto e a nulla vale la minaccia di fare impiccare Gianni e Pedrigo (cabaletta: Ambedue farò impiccar).
Accompagnata dal suo seguito che si produce in coro comicamente solenne con il suo ritmo puntato nell’introduzione orchestrale (All’illustre principessa), la Principessa dà vita alla sua belcantistica cavatina (Quanto e qual diletto) nella quale la giovane donna esalta il piacere procurato dal viaggiare su un testo ampiamente modificato da Donizetti stesso rispetto all’originale di Romani. Nel successivo recitativo secco la Principessa apprende dal Siniscalco, sempre più indisposto, che nella locanda sta soggiornando un borghese, la cui condizione viene esaltata da Oliviero, presente alla parte conclusiva del colloquio. La Principessa, più divertita che arrabbiata, alla fine ordina al Siniscalco di ringraziare questo signore e di accettare l’appartamento che le viene offerto.
Nel tempo d’attacco del Finale del primo atto Pedrigo, sempre più agitato, manifesta comicamente le sue preoccupazioni per la sua sorte alla figlia che lo rassicura dicendogli di confidare nel carattere distinto e sicuro di Gianni di Parigi; intanto, mentre il Siniscalco, indispettito, sta comunicando alla Principessa che non sarà possibile per loro pranzare, giunge Oliviero che riferisce alla Principessa il desiderio del suo padrone di incontrarla. L’arrivo di Gianni dà l’avvio al raffinato concertato (Non m’inganno: il prence è quello) nel quale la Principessa riconosce immediatamente nell’uomo Filippo di Valois, mentre questi rimane incantato dalla bellezza della donna; a loro si contrappongono gli interventi comici degli altri personaggi. Gianni invita allora a pranzare con lui la Principessa (Tempo di mezzo: Chiedo scusa se mi avanzo) che accetta suscitando lo sdegno del Siniscalco e la gioia degli altri nella travolgente Stretta (Finché il pranzo e la mensa si appresta).
Atto Secondo
Il secondo atto si apre con un recitativo secco, nel quale il Siniscalco, con un certo dispetto, apprende dal paggio che avrebbe dovuto attendere ancora un’ora prima di poter pranzare; l’uomo, che non intende aspettare oltre, chiede, allora, al Locandiere di servirgli in camera sua il pranzo che, per lui, sarà costituito da uova, formaggio e pane. Il disappunto del Siniscalco cresce, quando apprende da Pedrigo, nel tempo d’attacco del duetto (Eccellenza se sapesse), che sarà imbandito un pranzo luculliano per il borghese Gianni e la Principessa; l’uomo, nel comico cantabile (In qual bivio, oh Dio! Mi mette) interamente costruito su una melodia malinconica che stride con il testo dove si parla di storioni e fagiani, è posto di fronte a un dilemma: cedere alla gola o mantenere l’onore che avrebbe potuto perdere accettando di mangiare alla stessa tavola di un borghese. Alla fine l’uomo, ingolosito dalle leccornie del pranzo, ferma Pedrigo, che stava andando a preparargli il parco pranzo (tempo di mezzo: Dunque io vado), e manifesta la sua volontà di unirsi al banchetto del borghese, affermando che lo avrebbe onorato con la sua presenza nella vivace cabaletta, Tralasciar sì gran banchetto, mentre Pedrigo si concede un commento ironico sulla superbia del Siniscalco, andata in vento di fronte ai piaceri della gola. L’ironia di Donizetti è ancor più palese nella Stretta, dove il compositore utilizza delle formule da opera seria per accompagnare le ridicole parole del Siniscalco che ha deciso di sfogare la sua rabbia sul fagiano, quasi fosse un nemico. Sulle note del preludio, i seguaci di Gianni e della Principessa inneggiano a quest’ultima della quale Gianni/Filippo di Valois è innamorato, come si può notare nella sua aria di carattere romantico, Il mio destin dipende da quest’istante, completata dalla belcantistica cabaletta Ah presso ad esser felice appieno nella quale l’uomo afferma di palpitare per la gioia. La tavola riccamente imbandita sorprende sia la Principessa che il Siniscalco e Gianni, per rendere ancor più piacevole il pranzo, ordina a Oliviero di intonare una canzone (Mira, o bella, il trovatore). Viene eseguita, quindi, una vivace tarantella ad allietare la festa che si conclude con un coro di lode nei confronti della Principessa (Persona più amabile).
Rimasti soli, Gianni e la Principessa, per verificare rispettivamente se il loro reciproco amore è sincero, intonano un duetto nel quale ciascuno finge di amare una persona perfetta; la Principessa chiede anzi a Gianni, il quale teme che il cuore della donna amata sia già impegnato, di voler dirigere le feste di nozze, mentre Gianni, nel cantabile Questo mortal beato, si mostra sorpreso per la mancata presenza del fantomatico promesso sposo accanto alla Principessa. Alla fine, i due si riconoscono innamorati e si possono abbandonare alla lieta cabaletta (Ah! Spiegar non so il diletto).
Convocati tutti i personaggi e i rispettivi cortei di accompagnamento, Gianni rivela, tra lo stupore generale, che sarà sua sposa la Principessa la quale, a sua volta, afferma che il suo promesso è Filippo di Valois. L’opera si conclude con un lieto rondò (Or tutto arrise a noi) aperto dalla Principessa. In allegato il libretto dell’opera