Opera in un Prologo e due atti su libretto di Myfanwy Piper, dal romanzo omonimo di Henry James. Prima rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 14 settembre 1954.
È questa una delle opere più riuscite e più interessanti di Benjamin Britten: The turn of the screw (Il giro di vite), opera in un prologo e due atti, rappresentata per la prima volta il 14 settembre 1954 a Venezia nel quadro del XVII° festival di musica contemporanea. Uno dei principali motivi d’interesse di quest’opera risiede nel modo, originale in cui Britten ha saputo impostare e risolvere musicalmente i problemi posti dal carattere del tutto particolare del libretto che Myfanwy Piper aveva ricavato da un romanzo di Henry James. L’assunto di questo racconto è costituito dal tragico scontro tra forze spettrali malefiche ed una reale volontà di bene destinata a soccombere. Questo conflitto morale si concreta nella lotta di una giovane istitutrice per sottrarre due bambini orfani a lei affidati al perverso influsso degli spiriti della loro precedente istitutrice e di un malvagio cameriere, i quali, dopo averne ferito l’innocenza, continuano anche dopo la morte ad esercitare sui fanciulli il loro fatale potere.
L’estro di Britten è stato sollecitato soprattutto dal rapporto tra realtà e sogno, tra concretizza materiale e irrealtà fantastica. Il compositore ha attutito la scabrosa violenza delle “giro di vite” psicologico che uccide moralmente la bambina e del quale Il fanciullo si salva soltanto a prezzo della sua vita. Britten scioglie il tragico nodo della vicenda in un clima dolcissimo in cui la poesia dell’infanzia si intride di un senso di sconfinata pietà umana. Tutta la partitura (affidata a sei cantanti e tredici strumentisti) sembra ricevere il suo peculiare colore poetico del timbro della voce bianca del bambino che avvolge l’azione di una struggente nostalgia di purezza. I più sottili mezzi compositivi sono stati impiegati per distinguere nel modo più evidente le due zone psicologiche contrastanti nelle quali si svolge la vicenda: la zona “normale” in cui vivono gli adulti, entrando i rapporti tra loro e comunicando anche coi bambini, e la zona “anormale” o “soprannaturale” in cui gli adulti avvertono la presenza dei fantasmi senza poter entrare in comunicazione con loro, mentre tra spettri e ai bambini si possono stabilire intese strette e segrete intese.
“Per separare i morti dai vivi”, la librettista è ricorsa all’espediente di affidare ai personaggi reali dei testi in prosa e di fare cantare in versi i soli spettri (ad eccezione di talune filastrocche dei bambini). Assai più efficace risulta però il mezzo di cui, allo stesso fine, si è valso il compositore. Affrontando il rischio dell’incoerenza grammaticale, egli ha strutturato l’opera su due diversi piani stilistici sovrapponendo sistematicamente brani dodecafonici e brani tonali nell’accezione tradizionale del termine facendo corrispondere in tal modo alla stratificazione immaginifica letteraria, una correlativa stratificazione di zone dalle strutture musicali intimamente contrastanti. La coesione estrinseca dell’intera struttura sonora è assicurata dal fatto che gli elementi contrastanti appaiono calati in una comune cornice formale: ogni atto si articola in otto scene collegate da interludi strumentali concepiti con altrettante variazioni sul tema dodecafonico esposto nella prima scena dell’opera. La partitura si configura come un'”Aria con quindici variazioni”. All’interno di questa ingegnosa costruzione formale i due diversi mondi sonori restano però separati come due liquidi che non si mescolano. Foto Archivio storico Teatro La Fenice