Venezia, Teatro Malibran
“HISTOIRE DU SOLDAT”
Storia da leggere, recitare e danzare in due parti per voce narrante e piccola orchestra. Libretto di Charles-Ferdinand Ramuz.
Musica di Igor Stravinskij
Strumentisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice:
Violino Roberto Baraldi – Contrabbasso Matteo Liuzzi
Clarinetto Simone Simonelli – Fagotto Ai Ikeda
Tromba Guido Guidarelli – Trombone Giuseppe Mendola
Percussioni Claudio Cavallini
Direttore Alessandro Cappelletto
Attore e regista Francesco Bortolozzo
Danzatrice e coreografa Emanuela Bonora
Costumi Marta Del Fabbro
Luci Fabio Barettin
Adattamento teatrale in lingua italiana
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 26 agosto 2020
Il rinnovato Teatro Malibran ha riaperto con l’Histoire du soldat. Il soggetto dell’operina è desunto da due fiabe popolari russe – Il soldato disertore e il diavolo e Un soldato libera la principessa – tratte dalla raccolta di Aleksandr Nikolaevič Afanas’ev, ma la vicenda del militare Joseph Dupraz, che cede al diavolo il proprio violino – ovvero la sua stessa anima, di cui lo strumento è una sorta di correlativo oggettivo – in cambio di un libro magico che, svelando il futuro, dona ricchezza e potere, non può non ricordare il mito di Faust. La musica ha un respiro cosmopolita, attingendo alle tradizioni di diverse aree geografiche. Ragtime nordamericano, tango argentino, fanfare svizzere, paso doble spagnolo, corali e preludi bachiani, valzer viennese convivono in un raffinato ecclettismo, su cui la forte personalità dell’autore imprime il suo marchio inconfondibile e unificante. Solo il motivo del violino, che – come si è detto – simboleggia l’anima del soldato, rimanda al folklore russo.
Alla fine della Grande Guerra non si poteva certo pensare a sontuose messe in scena. Stravinskij – allora esule in Svizzera –, lo scrittore Charles-Ferdinand Ramuz e il pittore René Auberjonois pensarono così a uno spettacolo ambulante, facilmente trasportabile anche in piccole località, grazie al minimalismo dei mezzi scenografici e musicali utilizzati. La necessità di suscitare l’attenzione del pubblico, anche quello meno colto dei villaggi, spinse gli autori a scegliere – piuttosto che il canto – la recitazione, con il supporto della musica nei momenti salienti. La partitura in effetti si presenta come una suite costituita da tanti pezzi separati, ognuno col suo preciso carattere. Purtroppo, a causa dell’influenza “spagnola”, le rappresentazioni dell’Histoire du soldat non andarono oltre la prima, avvenuta a Losanna il 28 settembre 1918, sotto la direzione di Ernest Ansermet.
Nata in un periodo di estrema difficoltà, verso la fine della Grande Guerra – soprattutto quando al disastro provocato da quest’ultima si sovrappose quello determinato dalla pandemia di influenza “spagnola”, che fece ancora più vittime di quelle provocate dal conflitto –, l’operina di Stravinskij appare come una scelta decisamente indovinata anche nel momento attuale, le cui analogie con quegli anni sono del tutto evidenti. L’Histoire du soldat è apparsa, tra l’altro, particolarmente adatta ad inaugurare il nuovo palcoscenico del Malibran. Grazie ai recenti lavori, il pavimento dell’ampia buca dell’orchestra può salire, grazie a una struttura elettromeccanica, a varie altezze, fino a raggiungere il livello del proscenio, col risultato di ampliare lo spazio scenico, creando le condizioni per una vicinanza e un’emozione molto maggiori per il pubblico.
La scelta di questo lavoro di Stravinskij si carica anche di un altro significato. La prima di questo nuovo allestimento dell’Histoire du soldat è avvenuta nel giorno del compleanno di un’amica insigne di Stravinskij e di sua moglie Vera: Peggy Guggenheim. La mecenate americana – vissuta per oltre trent’anni a Venezia, dove istituì la collezione che porta il suo nome – assistette nel 1951, alla Fenice, alla prima mondiale del Rake’s Progress. Successivamente, nel settembre del 1957 ospitò il musicista russo nella sua dimora di Palazzo Venier dei Leoni – sul libro degli ospiti c’è la firma del compositore corredata da una battuta musicale.
L’operina, concepita ab originis all’insegna di un’assoluta povertà di mezzi, risulta in questa nuova produzione ancora più minimalista rispetto all’originale. Lo spettacolo, privo di scene e con luci, costumi e arredi (un tavolo e due sedie) ridotti all’essenziale, si regge prevalentemente sulla recitazione di un testo (in italiano), ridimensionato da sostanziali tagli, che in parte vanno a scapito della completezza e della coesione narrativa. Francesco Bortolozzo, regista e unico interprete, ha la tempra del mattatore, animando con efficacia e ricchezza di mezzi espressivi, a livello verbale e gestuale, il lungo monologo ricavato dal testo di Ramuz. Non prive di originalità risultano alcune sue trovate registiche come quella di coinvolgere nell’azione gli stessi musicisti: all’inizio il violinista Roberto Baraldi, intonando il motivo dell’anima di Joseph, indossa i panni del protagonista (giacca e berretto da soldato); successivamente il direttore Alessandro Cappelletto, nelle veci del diavolo, consegna al soldato il libro magico in cambio del suo violino; verso la fine dello spettacolo il percussionista Claudio Cavallini indossa una maschera demoniaca, mentre scandisce ritmicamente la danza del diavolo. Eleganti e misurate sono apparse le movenze della danzatrice e coreografa Emanuela Bonora. Sul piano musicale, Alessandro Cappelletto, primo dei secondi violini nell’orchestra del Teatro La Fenice, al suo debutto come direttore, ha guidato l’ottimo ensemble strumentale con gesto sicuro, evidenziando il diverso carattere dei singoli interventi, così rappresentativi dell’inventiva stravinskiana. Conclusa la rappresentazione, il pubblico, attento e coinvolto, ha salutato con calorosi applausi gli interpreti e i responsabili dello spettacolo. Foto Michele Crosera