Napoli, Piazza del Plebiscito – Progetto Regione Lirica / Regione Campania
“TOSCA”
Melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dall’omonimo dramma di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca ANNA NETREBKO
Mario Cavaradossi YUSIF EYVAZOV
Il barone Scarpia LUDOVIC TÉZIER
Cesare Angelotti RICCARDO FASSI
Il sagrestano SERGIO VITALE
Spoletta FRANCESCO PITTARI
Sciarrone DOMENICO COLAIANNI
Un carceriere ROSARIO NATALE
Un pastorello LORENZO NARCISI
Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro San Carlo
Direttore Juraj Valčuha
Maestro del coro Gea Garatti Ansini
Maestro del coro di voci bianche Stefania Rinaldi
Esecuzione in forma di concerto
Napoli, 26 luglio 2020
Frequenti i turisti stranieri che passando per piazza del Plebiscito si chiedevano il motivo di varchi e impalcature. Informati dai passanti sulla programmata performance di “Tosca”, scomparivano poco dopo per via Cesare Console con curiosa incredulità. Ma in fondo cosa c’è da sorprendersi? Perché l’Italia del coronavirus e del lockdown è anche l’Italia della ripartenza e, nel nome del fascino artistico che da sempre ha funto da polo attrattivo, lo fa anche pensando alla cultura. Si distingue in questo il San Carlo di Napoli, avanguardia nella pianificazione di un piccolo ciclo di opere all’aperto, sostenuto dall’abbraccio architettonico di Piazza del Plebiscito. Un’audacia che si è guadagnata la raccolta di un cast di rilievo e altresì di difficile improvvisazione, favorita da un momento di stallo del panorama lirico internazionale. Mascherina alla mano, i violinisti prendono a scaglioni il loro posto tra le file dell’orchestra, mentre fiati e coro la sormontano mantenendo le prescritte distanze. Fatta eccezione di ciò, la serata è stata una parentesi di ristabilita normalità, del resto gli spettacoli all’aperto già costituivano un’estensione spontanea delle consuete stagioni liriche. Mai come quest’anno però la città di Napoli si è rivelata tanto protagonista nella resa dello spettacolo, arricchendo il commovente assolo orchestrale del terzo atto con reali rintocchi di campane, suggestione amplificata dai fiammeggianti cangiantismi di colore che cingevano la scena dall’alto delle colonne del Palazzo Reale. Così l’inedita location cittadina si riscattava da qualche imprevisto più invasivo, quale il persistente abbaiare dei cani o il passaggio di ambulanze in prossimità del palco, che ha messo a dura prova la ferrea sincronia tra interpreti e orchestra. Determinante in questo frangente la direzione di Juraj Valčuha, peraltro molto sensibile alla scelta di dinamiche ponderate, soprattutto nel duetto d’amore del primo atto, dove i distesi flutti della scrittura pucciniana indurrebbero alla prevaricazione. Altrettanto capace di distendere con continuità i tempi sulle frasi di maggiore intimismo, la bacchetta del direttore slovacco sembra rivolta verso la fruibilità dell’ampio spettro agogico, evidenziando le parossistiche pulsazioni della partitura, producendo struggenti dissolvenze sui richiami tematici e recuperando i nessi con altre opere pucciniane, tangibili nel puntuale accompagnamento del ”Non la sospiri la nostra casetta”, di sapore quasi esotico. Magnificente la sempre attesa resa del “Te Deum”, coadiuvata dal lavoro del coro del teatro e quello di voci bianche, diretti rispettivamente da Gea Garatti Ansini e Stefania Rinaldi. L’unico neo della restituzione musicale consisteva nel ricorso a un sofisticato sistema di amplificazione. Lo si può in parte capire, dato che la piazza non è sufficientemente isolata dal resto della città, ma con la riserva di un dosaggio delle intensità vocali simile a quello di una diretta televisiva, dove il dislivello vocale tra i vari interpreti rischia di essere meno realistico rispetto all’impressione che poi se ne ha da vivo. Questo discorso non valeva certo per Anna Netrebko, il cui timbro seducente è stato accolto dal pubblico con un inedito applauso. Non è solo la maestosità delle messe di voce ad attrarre per tutta l’esecuzione del primo atto, ma soprattutto l’inscindibile binomio tra una marcia in più nella caratura della proiezione e la facilità di sostenerla con un’emissione omogenea, in grado d’intessere finiture in piano e prese di forza di pari nitidezza. Oltre ad avere nel sangue il piglio scenico di Tosca, si aveva l’impressione che l’intera parte non le presentasse particolari ostacoli. Con lei, la melodia del primo duetto si sviluppa infatti in tutta la sua sensualità, rendendo assolutamente godibile la coincidenza tra la linea del soprano e quella dell’orchestra. Nondimeno, l’ascesa ai ripetuti Do acuti a piena orchestra del confronto con Scarpia, così come quello assai più esposto nel racconto del terzo atto, veniva superata con esuberante centratura. Era semmai la gamma coloristica ad apparire un pochino meno estrosa rispetto ad altri ruoli, ma ecco che la Netrebko riserva al pubblico un “Vissi d’arte” di ragguardevole ricchezza timbrica, cesellato ora affievolendo l’emissione sulle frasi d’inizio, ora rimarcando con convinzione gli accenti di maggior rassegnazione o sospendendo i distesi e straripanti flussi finali per poi volgerli verso diafani smorzamenti e subitanei crescendo, per un’eterea chiusa in pianissimo. Al soprano va inoltre riconosciuta la sagacia di aver condotto una recitazione scenica ben superiore a quella di una forma di concerto, aiutata dalla personale scelta di un corredo d’abiti del tutto in linea con gli usuali allestimenti di Tosca e sfavorita sulla carta dal fatto di non avere in scena né il cadavere di Scarpia, né quello di Mario. Lo stesso non valgasi per la prova del tenore consorte, Yusif Eyvazov, Cavaradossi incline a un fraseggio particolareggiato ma non esente fa qualche vuoto di memoria, entro uno spettro timbrico ristretto. L’apprensione verso uno strumento vocale difficilmente domabile, dall’emissione talora polverosa, lo relega a un Mario scenicamente statico e dalle intuizioni cromatiche non sempre riuscite. A dispetto di ciò, il tenore azero dimostra grande tenacia nell’aggiudicarsi ruoli di assoluto calibro, impegnandosi fino allo stremo nella ricerca di un’omogeneità a tratti sfuggente. Ciò emerge soprattutto all’approssimarsi degli acuti della “Recondita armonia” e del successivo duetto, così indietro che a stento sarebbero passati oltre il golfo mistico nella naturale risonanza del Teatro San Carlo. Mettendo da parte particolari inventive nelle soffuse effusioni d’amore, il tenore si riscatta parzialmente nel giubilo della “Vittoria!” e ritenta la fortuna col La acuto dell’aria finale, stavolta più a fuoco. Si tratta però di una gloria solo a metà, giacché nell’idea di prolungare i suoni fino all’inverosimile non gli è complice un altrettanto solido sostegno del fiato. Con fare guardingo, fraseggio soppesato e scaltrezza attoriale, Ludovic Tézier chiude il cerchio dei primari plasmando uno Scarpia sottilmente insidioso, sprezzante del fallimento al punto da indurre l’audience a pensare di poter avere la meglio sull’impulsivo gesto fatale di Tosca. Parimenti abile sia nel sottolineare con risoluti accenti in forte l’intensità d’intenti del personaggio che nella subdola sospensione d’intere frasi (arguta in questo senso la progressione cromatica sull’”Ebbene?” che precede l’accondiscendere di Tosca), fa leva su uno studio della parola tale da rendere le più puntigliose notule del libretto, affermando la sua autorevolezza con lo slancio del registro acuto. È indiscusso che i confronti col soprano nel primo e nel secondo atto siano stati i momenti di maggiore livello della serata, sebbene la proiezione del baritono apparisse sulle prime più offuscata rispetto all’ampia rotondità emissiva a cui ci aveva abituati in altri ruoli, comunque riscontrata al piano nobile di Palazzo Farnese. Capeggiava la schiera dei secondari lo scuro e reboante Angelotti di Riccardo Fassi, di nota sia nell’immedesimazione con l’evaso che con l’estensione della parte, di cui il sicuro balzo d’ottava dal Mi sovracuto è stato convincente riprova. Lo seguiva a stretto giro il baritono Sergio Vitale, che fraseggiava divertito al cospetto di un’immaginaria sagrestia, stagliando prediche d’autorevole proiezione. Più sullo sfondo lo Spoletta di Francesco Pittari, mentre Domenico Colaianni (Sciarrone), Rosario Natale (carceriere) e Lorenzo Narcisi (pastorello) adempivano con professionale attitudine i compiti previsti a Palazzo Farnese, nel carcere e nell’ameno scorcio sulla Città Eterna. Termina infine senza salti dalla piattaforma questa “Tosca” ai tempi del coronavirus, salutata da un pubblico estivo ingiustificatamente arido di applausi.