Torre del Lago, 66° Festival Puccini: “Tosca”

Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”– 66° Festival Puccini
TOSCA
Dramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal dramma omonimo di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca AMARILLI NIZZA
Mario Cavaradossi AMADI LAGHA
Il barone Scarpia DEVID CECCONI
Cesare Angelotti DAVIDE MURA
Il sagrestano CLAUDIO OTTINO
Spoletta MARCO VOLERI
Sciarrone ALESSADRO CECCARINI
Un carceriere MASSIMO SCHILLACI
Un pastorello NICHOLAS CERAGIOLI
Orchestra, Coro e Coro delle Voci Bianche del Festival Puccini
Direttore Alberto Veronesi
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Maestro del Coro delle Voci Bianche Viviana Apicella
Regia, Scene e Costumi Stefano Monti
Luci Eva Bruno
Nuovo Allestimento Fondazione Festival Pucciniano
Torre del Lago, 06 agosto 2020
Impossibilitati nel presenziare al “Gianni Schicchi” di giugno, riprendiamo il Festival Puccini di quest’anno esattamente da dove l’avevamo salutato l’anno scorso, da “Tosca”, il titolo probabilmente più iconico tra quelli del repertorio pucciniano. La produzione è tuttavia differente (anche per le normative sul Covid-19) e il risultato quasi diametralmente opposto; infatti, se fossimo al Festival di Sanremo, questa “Tosca” verrebbe definita “baudiana”, ovvero esageratamente allungata e rallentata nei ritmi: ad esempio, ci sono due intervalli da venticinque minuti l’uno senza nessuna spiegazione plausibile (i cambi di scena sono minimi); la direzione di Alberto Veronesi è in assoluto tra le più “larghe” di cui abbiamo memoria, specie nel primo atto, dilatato, infinito, dissanguato da qualsivoglia energia. L’effettiva ragione non pare chiara: una difficoltà dell’orchestra nel seguire il maestro concertatore a distanza di sicurezza? Il dubbio, in realtà, è che sia una scelta presa affinché i cantanti possano mettersi in luce: e infatti già in “Recondita armonia” (che prende quasi il ritmo di una “barcarola”) Amadi Lagha può dilettarsi nella sua attività preferita, ossia allungare ad libitum le corone. Peccato che la vocalità senza dubbio audace lasci il passo a una tecnica non altrettanto granitica, che spesso porta
il tenore a lanciare acuti generosi ma non sempre ben controllati (vedi ad esempio nel celebre inciso  “Vittoria!” del secondo atto, mentre in “E lucevan le stelle” ha saputo tenere meglio la linea di canto). La concertazione snervata non risparmia nemmeno il Barone Scarpia, che nel primo atto appare decisamente più riflessivo che indagatore, più posato che tormentato. Devid Cecconi porta a casa la serata, come si suol dire, soprattutto grazie a un più mefistofelico e incalzante secondo atto, che lo vede attentissimo interprete scenico, seppur con alcune opacità vocali – accentuate  dalla brezza settentrionale alzatasi, che, per quanto piacevole per lo spettatore, è stata amplificata dai microfoni a bordo palco, penalizzando le voci. Di questo cantante si apprezzano un registro centrale ben sostenuto e sonoro, mentre più alterna è la resa nel registro acuto, che  perde luminosità. Tornando alla concertazione, il terzo atto lo si potrebbe definire prudente, ma tutt’altro che concitato, tant’è che il finale, notoriamente dai tempi tesi, vede, al contrario, una Tosca in una lunga sequenza, quasi al rallentatore, salire i gradini – voltarsi – lanciare l’invettiva a  Scarpia – rigirarsi – riflettere, quasi a prendere la mira – finalmente lanciarsi, il tutto su una musica che sembra non dover finire mai. Nel ruolo della cantante romana ritroviamo Amarilli Nizza, una aficionada del Festival  e dei ruoli pucciniani: ancora una volta la cantante si getta anima e corpo nel personaggio, a scapito di una intonazione non sempre a fuoco, di acuti spesso alquanto tesi e metallici; la  dimestichezza con il ruolo, tuttavia, le permette di smussare le asperità della sua linea di canto, regalandoci una Floria complessivamente corretta. Un po’ alterno il resto del cast: ci è parso un po’ in affanno l’Angelotti di Davide Mura, opaco lo Spoletta di Marco Voleri, mentre si riconferma un valido caratterista Claudio Ottino nella parte del Sagrestano. Di ottimo livello la prova del coro, comprese le voci bianche – un plauso ai maestri Roberto Ardigò e Viviana Apicella. L’apparato scenico desta diverse perplessità, a partire dalle scenografie del tutto arbitrarie, slegate dalle richieste del libretto: tre oblò giganteschi (quello centrale munito anche di specchio), nei quali talvolta si realizzano scenette accessorie, altre dei tableaux vivant (soprattutto nel primo atto, per dare l’impressione di essere in Chiesa, più che a bordo del Titanic), altre ancora le proiezioni delle coscienze dei personaggi, e altre ancora servono semplicemente da passaggi d’ingresso e uscita. Niente colonna, niente Madonna, niente quadro di Cavaradossi (che dovrebbe essere una pedana orizzontale, sulla quale però tutti passano, camminano, senza un’effettiva logica), porte e finestre che si aprono “magicamente” semplicemente col gesto della mano (in quanto inesistenti anch’esse): molte opere si possono ben prestare al teatro antinaturalista, ma “Tosca” non è decisamente una di queste, poiché richiede certi tipi di luoghi e oggetti scenici, e spiace constatare come Stefano Monti abbia invece voluto tentare un esperimento fallimentare già in partenza. Inoltre, l’ambientazione neutra non corrisponde ai costumi tradizionali (a parte quello di Scarpia, pieno di lustrini), elemento ancora più disorientante; la regia, di fronte a questo trittico gigantesco, deve, sappiamo bene, rispettare le distanze di sicurezza imposte dalla normativa vigente: belli, ma alla lunga stancanti, i giochi scenici sull’uso degli oggetti (bastoni, pennelli, fusciacche), e ben congeniata la sostituzione dell’aggressione di Scarpia a Tosca e la conseguente coltellata con l’improvvisa accensione di una serie di fari rivolti al pubblico, in modo da poter evitare anche l’inevitabile contatto. Peccato che però in altri frangenti la regia non sia stata così accurata, regalandoci molti momenti casuali – inutili passeggiate per il palco, sbracciamenti degli interpreti e soprattutto l’arbitrario uso della pedana a centro palco, su cui contemporaneamente si cammina e si beve vino. Il risultato complessivo è straniante e poco godibile, anzi, lo spettatore viene irritato dalla effettiva non corrispondenza tra ciò che viene detto e ciò che si vede e finisce per perdere interesse per ciò che avviene e più in generale per lo spettacolo stesso. Foto Giorgio Andreuccetti